Come molti sanno bene, la parata dell’orgoglio omosessuale viene celebrata nel mese di giugno, in memoria degli scontri che ebbero luogo allo Stonewall Inn, un bar gay in Christopher Street nel Village di NYC. Fu la prima ribellione pubblica di persone LGBT (molte le drag queen) e avvenne la notte del 28 giugno del ‘69. la donna transessuale Sylvia Rivera, che lanciò la prima bottiglia contro i poliziotti, è divenuta il simbolo di quella notte di scontri.
C’è un film americano del 2015 che si chiama proprio Stonewell e lo racconta bene (e la regia inaspettatamente è di quel Roland Emmerich noto per disaster movie come Indipendence day e Godzilla).
Da noi ci sarebbe voluto ancora qualche anno prima che si potesse parlare di “orgoglio gay”, anzi, la parola gay sarebbe arrivata molto dopo. A quel tempo ancora si usava omosessuale, se non termini più offensivi come frocio, invertito o un po’ altisonanti come “pederasta”. A Torino il collettivo F.U.O.R.I. aveva già organizzato delle azioni rappresentative, ma si trattava sempre di piccole delegazioni.
Nel 1989, non ancora ventenne, mi trovavo per caso a Milano. Ricordo ancora l’emozione e l’imbarazzo quando in Piazza della Scala riconobbi una sparuta manifestazione di omosessuali, circa un centinaio. Gridavano slogan come “gli omosessuali esistono e hanno gli stessi diritti di tutti gli altri”. Erano veri pionieri. Ancora oggi quando c’è un Pride, vedi sempre quelli che preferiscono stare sul lato, con gli occhiali da sole, pronti a nascondersi dietro un cespuglio alla vista di una telecamera. Si sa, da noi c’è sempre una vecchia zia in Puglia che potrebbe rimanerci male se lo venisse a sapere. Provai molta ammirazione per quei ragazzi e un po’ di invidia per il loro coraggio.
Sono passati 30 anni dal primo vero e proprio Gay Pride italiano. Si svolse nel 1994, a Roma, organizzato dal Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli con l’accordo dell’Arcigay.. Alla marcia parteciparono oltre diecimila persone e vi presero parte esponenti del Partito Radicale e dei verdi tra cui l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli.
Abbiamo fatto passi da gigante da quel ’94 e il cinema e la televisione, da sempre specchio della società, lo hanno saputo raccontare bene. Anzi, talvolta, è lecito pensare che abbiano aiutato il dibattito, mostrando quantomeno modelli diversi da quelli veicolati dalle barzellette e, nel migliore dei casi, traghettando il paese verso il progresso. Se fino ad allora gli omosessuali venivano raccontati come personaggi patetici, soli, tristi e aspiranti suicidi, oppure costantemente stravaganti, macchiettistici e sopra le righe, se non addirittura perversi serial killer, le cose adesso cominciavano a cambiare. Già nel 1999 la serie televisiva di enorme successo trasmessa sul primo canale della TV nazionale e intitolata Commesse, vedeva tra i protagonisti il bravo Franco Castellano nel ruolo del commesso di un negozio del centro che non faceva mistero con le sue colleghe del suo orientamento, ne’ delle tribolazioni amorose che stava passando con il suo fidanzato che lo aspettava a casa per cena. Certo, all’estero stavano già vedendo Queer as folk, o Will and Grace, ma insomma, non si può pretendere troppo, non saremmo l’Italia, no?
Nel 2001 è la volta del film Le fate ignoranti diretto da Ferzan Özpetek, con Margherita Buy e Stefano Accorsi. Lui è gay e ha una storia d’amore col marito di lei, signora borghese che ci mette un po’ a farsene una ragione, ma alla fine capisce. Il film ha un successo strepitoso e per la prima volta non è un fenomeno di nicchia ma porta in sala sia il pubblico omo che eterosessuale.
Nel frattempo, non va dimenticato, in concomitanza con il giubileo del 2000, Arcigay rinunciò a organizzare il suo Pride a favore del World Pride in preparazione a Roma da parte del Circolo Mario Mieli. La dura battaglia messa in atto dal Vaticano affinchè nella città santa non avesse luogo una manifestazione di quelli che loro evidentemente considerano dei degenerati, sortì l’effetto contrario: tutte le organizzazioni LGBT si compattarono e il World Pride di Roma dell’8 luglio 2000 vide una partecipazione record per l’Italia, stimata in oltre 500 000 persone (ma si pensa fossero molte di più). All’evento presero parte molte superstar care all’universo LGBTQI+ tra cui l’icona assoluta Gloria Gaynor, che con la sua Hit I will Survive ha fatto sudare centinaia di avventori della Muccassassina, la Drag queen RuPaul e Geri Halliwell, transfuga delle Spice Girl.
Nel corso di questi 24 anni la figura dei gay e delle lesbiche in Italia è andata via via diventando più “potabile”. A volte anche di moda. Si sa che i veri omofobi esordiscono sempre dicendo “non ho nulla contro i gay anzi, ho pure amici con cui vado a cena”. Diciamo, per dirla con un eufemismo, che non facciamo più paura a nessuno. Siamo un target e questo nella società capitalistica fa anche comodo. Non mi pare che ci sia un Pier Paolo Pasolini a rompere le uova nel paniere. Il gay (soprattutto l’uomo, per la donna dovremo aspettare ancora un po’) è diventato una presenza fissa nei talk show, nei reality, nei varietà del sabato sera. E’ portatore di una sana dose di sarcasmo, di irriverenza e di ironia. E’ adorato dalle donne che lo vorrebbero come amico e shopping advisor, e tutto sommato tollerato dai maschi etero che si sono fatti finalmente una ragione per il fatto che a noi non piace vedere la partita in TV e fare la gara di rutti insieme a loro. Poi magari ci sono le eccezioni ma non fanno statistica.
In questi due decenni sono stati tantissimi i film per il grande pubblico che hanno raccontato bene le nostre storie d’amore, capolavori come Happy Together (1997) del cinese Wong Kar_wai o Brokeback Mountain, del taiwanese Ang Lee, del 2005 o ancora il francese la vie d’Adèle, del 2013, che racconta come mai prima l’amore travagliato tra due ragazze, poi c’è stato Chiamami col tuo nome nel 2017 che ha lanciato Luca Guadagnino nell’empireo Hollywoodiano e ha commosso mezzo mondo. Ci sono stati anche film che hanno raccontato proprio il Gay Pride, la battaglia per i diritti, e aimé anche la piaga dell’AIDS. Penso a titoli come Milk, un film biografico del 2008 diretto da Gus Van Sant, (non serve qui che ricordi il contributo di questo regista alla storia del cinema gay) sulla vita di Harvey Milk, primo gay dichiarato ad essere eletto ad una carica politica negli Stati Uniti, a San Francisco nel quartiere di Castro. Il protagonista che dà il titolo al film, famoso per le sue lotte per i diritti della comunità, è interpretato da Sean Penn, che per questo ruolo vinse l’Oscar. Chissà, magari è grazie a lui se da noi 40 anni dopo è stato possibile avere un Niki Vendola per due volte governatore della Puglia.
Nel frattempo nel nostro paese si era cominciato a parlare seppur timidamente di fare una legge per le unioni civili. Non un matrimonio ugualitario, figurati! Per quello dovremo ancora aspettare chissà quanto, ma una cosa più blanda. Ne discuteva il Governo Prodi nel 2007. Fu a quel punto che il mio compagno da lungo tempo mi esortò ad armarci di videocamera e documentare quello che succedeva dentro l’aula della commissione giustizia del senato, incaricata di mettere a punto un disegno di legge chiamato Di.Co. acronimo di “doveri e diritti dei conviventi”. Dopo mesi di sterili discussioni e manifestazioni di piazza a favore o contrarie a questa legge, il governo cadde (ma dai? Cosa rara dalle nostre parti) e della simil unioni civili non se ne fece nulla. Il nostro film documentario, intitolato Improvvisamente l’Inverno Scorso, divenne così la cronaca dell’ennesima occasione mancata. Per tre anni girammo il mondo ospiti di festival, il nostro piccolo film autoprodotto ebbe un successo insperato, una menzione speciale al festival di Berlino, il Nastro d’Argento e non so più quanti premi, Persino Amnesty International ci insignì della targa di attivisti dell’anno, consegnataci dalla principessa d’Olanda in persona. Nella locandina io e Gustav, il mio compagno, eravamo nel letto di casa nostra intenti a leggere. In giro per il mondo tutti coglievano la citazione al cinema francese di François Truffaut, tranne da noi, dove pesavano fosse un richiamo a Sandra e Raimondo. Ma quello che voglio dire è che quell’immagine, creò non pochi problemi: addirittura un automobilista scrisse che stava rischiando un incidente per averla vista affissa su un muro. Quella che per noi era la cosa più normale del mondo, ovvero la nostra camera da letto, per altri poteva essere offensivo della morale (sic!). In effetti per molte persone l’omosessualità altro non è se non quella cosa che succede in camera da letto, pertanto, secondo loro, in un paese cattolico, è giusto che rimanga nella sfera del privato. Noi invece volevamo rendere pubblico il nostro privato e farne uno statement . Ogni sera la sala era gremita di giovani queer che ci ringraziavano per aver potuto finalmente avere un modello positivo a cui fare riferimento. Abbiamo cominciato a ricevere mail di giovani che ci dicevano di aver fatto vedere il film ai loro genitori e aver colto l’occasione per fare il coming out con loro. Adesso i giornali, se parlavano di qualcosa inerente temi LGBTQI+ non usavano più una foto di un film di Almodovar ma potevano usare la foto del nostro film. Si era così dato corpo ad un’astrazione. Qualcosa che prima non aveva una faccia, adesso ce l’aveva, e non faceva più così paura. In qualunque nazione andassimo a presentare il nostro film, scoprivamo che lì da loro la legge per il matrimonio ugualitario era stata fatta, noi avremmo dovuto aspettare il 2016 perché il governo Renzi ci facesse la grazia di poterci almeno unire civilmente.
Negli anni a seguire abbiamo visto la società italiana cambiare. Molti coming out di personaggi famosi come Tiziano Ferro, Paola Turci, Gianna Nannini (finalmente!) Gabriel Garko e Eva Grimaldi hanno contribuito notevolmente a far capire che siamo tanti e siamo stanchi di essere invisibili.
C’è un piccolo film italiano dal titolo Come non detto (2012) per la regia di Ivan Silvestrini. Il protagonista Mattia ha deciso di dire ai suoi genitori di essere gay e fa le prove davanti allo specchio come in un romanzo di Raymond Queneau , provando tutti gli stili diversi del suo coming out, dal disinvolto, al volgare al drammatico allo scanzonato. Quando finalmente durante una cena la televisione sta passando immagini del Pride lui coglie la palla al balzo e dice: “Mamma, sono Gay!” ma la madre, una Monica Guerritore perfetta nel ruolo, senza neanche capire cosa il figlio voglia dire, ribatte: “Si amore, sono tutti gay. Poverini, guardali…”.
Pride è un film inglese del 2014 diretto da Matthew Warchus. In occasione del Gay Pride di Londra del 1984 Mark Ashton, giovane attivista gay e membro della Young Communist League, ha l’idea di raccogliere fondi per sostenere lo sciopero dei minatori, vittime dalle politiche scellerate della premier Margaret Thatcher. Ha l’intuizione di unire le forze e di chiedere sostegno ai lavoratori in lotta. Così dà vita al gruppo “Lesbians and Gays Support the Miners” (LGSM). E’ ispirato ad una storia vera. Non sono sicuro che da noi potrebbe funzionare una sinergia tra comunità LGBTQI+ e, che ne so, operai cassintegrati dell’Ilva, ma mai dire mai.
Un altro film importante è stato 120 battiti al minuto del 2017 scritto e diretto dal francese Robin Campillo. Ambientato nei primi anni novanta, periodo storico in cui gli attivisti di Act Up-Paris, collettivo parigino, vogliono richiamare l’attenzione sui malati di AIDS contrastando una società convinta che ad ammalarsi siano solo omosessuali e drogati (da noi sono ancora tanti a pensarlo).
Per molte persone, il Gay Pride, oggi solo Pride, è una carnevalata inutile e di cattivo gusto. La chiamano ostentazione inutile, esibizionismo. La responsabilità è dei mass media, che continuano volutamente a veicolare l’immagine del Pride come di una succursale del carnevale di Viareggio, pubblicando sulle pagine dei quotidiani o mostrando al TG delle 20 le immagini più “eccessive”. Si perde così ogni volta l’occasione di parlare di diritti negati, di razzismo verso le persone trans, dell’esigenza impellente di istituire l’educazione sessuale nelle scuole (e se vi fa tanto paura la parola sessuale chiamatela educazione sentimentale, basta che facciate qualcosa!). Insomma, la strada è ancora lunga ma si comincia a vedere la luce in fondo al tunnel. Magari verrà il giorno in cui anche l’Italia sarà un paese normale.