Le persone lgbtqia+ lottano per i diritti di tutte le persone. Anche quelle eterosessuali e cisgender. Mentre chi si oppone all’estensione dei diritti per le persone lgbtqia+ combatte per l’oppressione di tuttə. L’Italia degli anni ‘70 in cui Mario Mieli esprimeva, tra gli altri, questo concetto in libri e articoli, non è poi cambiata molto in materia di diritti lgbtqia+. Ma chi era Mario Mieli? L’intellettuale, il filosofo, lo scrittore, l’avanguardista a cui abbiamo dedicato il nome della nostra associazione? A proporci una sua rilettura è Isabella Borrelli, attivista lesbofemminista intersezionale.
Morto nel 1982 all’età di 30 anni, Mario Mieli non ha vissuto abbastanza a lungo per vedere l’omosessualità (nel 1991) e la transgenerità (nel 2018) depennati dalla lista della patologie psichiatriche a opera dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Lo Stato Italiano ha disatteso quasi ogni (sua) rivendicazione e, nel 2023, si classifica secondo il report ILGA Europe al 34° posto per diritti lgbt+ su 49 paesi europei, inclusi alcuni – forse serve ricordare – con regimi non democratici.
A partire dalle riflessioni di Mario Mieli scrivo questo pezzo, cercando di rielaborare alcuni concetti che trovo attuali non solo perché in Italia viviamo nell’immobilità legislativa in materia di diritti civili, ma anche perché lo sguardo di Mieli appare così visionario da superare i confini espressivi che il vocabolario gli forniva allora.
Dopo la sua morte la comunità lgbtqia+ si è riappropriata dell’insulto violento queer rendendolo una bandiera di orgoglio. Il Queer Nation Manifesto viene pubblicato nel ‘90, ma Mieli in fondo già ne scriveva: lo chiamava transessualismo.
Il transessualismo per il filosofo milanese è una categoria che sfugge alla classificazione e che attraversa i generi: il transessualismo dissolve i confini delle regole, ruoli e stereotipi di genere. Mieli intendeva la queerness in modo radicale, come trasformazione di tutta la società e come sovvertimento delle regole capitalistiche di sfruttamento dei corpi e dei desideri.
Quello che auspicava – e viveva attraverso il corpo, perché il personale è sempre politico – era il superamento della Norma eterosessuale come dogma, concetto che ritroviamo in diversi pensatori e pensatrici di quegli anni, fra tuttə la filosofa lesbica Monique Wittig (1972). E precedendo di molti anni l’“eteronormatività” da Michael Warner nel saggio politico “La paura di un mondo queer” (1991). Per Norma – così la chiamerò d’ora in avanti – si intende l’insieme delle norme sociali che disciplinano, esplicitamente o implicitamente, come deve essere la nostra società. Questo concetto per Mieli era fortemente connesso a un sistema capitalistico-borghese in cui la Norma prende consistenza.
Secondo la Norma la nostra società si fonda sulla coppia eterosessuale ricca e bianca che si sposa e ha dei figli a cui trasmettere le proprie ricchezze. E sempre la Norma ci dice chi amare, con chi fare i figli e come, come corteggiare, come è bene vestirci, a quali sogni ambire, quali colori indossare, cosa mangiare e anche come scopare. In altre parole costruisce un’ideologia, cioè un insieme di regole, consuetudini, abitudini e sanzioni sociali, o anche penali. Ironicamente, l’unica ideologia da cui siamo tuttə oppressə è quella Eterosessuale.
“La norma eterosessuale rappresenta una delle norme principali, se non la principale, che impedisce all’umanità di comprendersi”, scrive Mario Mieli nel ‘74. E quello che sta forse dicendo, allora come oggi, è che l’ideologia eterosessuale danneggia tutte le persone. Anche quelle eterosessuali. Allo stesso modo la rivoluzione queer salva tutte le vite della collettività: la sua fluidità rompe e non sostituisce i dogmi sociali che opprimono tutte le identità e sbaraglia il sistema capitalistico dei desideri.
Nel momento in cui una persona queer forma una famiglia, l’oppressione dell’istituzione capitalistica del matrimonio si smonta: perché la relazione tra coniugi – secondo i paradigmi della Norma – diventa tra eguali. Oppure perché la relazione tra coniugi può essere tra più di due persone o non intesa in senso strettamente romantico. Perché comprende le relazioni familiari non su base genetica: figliə, amanti, ziə, fratelli non hanno per forza legami di sangue.
Nel momento in cui una persona queer indossa i tacchi, scompone il paradigma di oppressione del femminile per cui quei tacchi sono stati progettati. Nel momento in cui una persona queer indossa un completo smoking rivendica per i corpi plurali il potere da cui sono stati esclusi.
“Meno male che ci sono i fr**i che hanno un po’ di fantasia: noi rivendichiamo la libertà di conciarci come ci pare e piace, di optare un giorno per un abbigliamento e il giorno dopo per un altro ambiguo, di portare le piume e le cravatte così come le guaine di leopardo e il biberon; le borchie, il cuoio e le fruste da “leather queen”, gli stracci sudati e bisunti da scaricatore di porto o l’abito di tulle Stefanacci formato premaman”.
La queerness riscrive i codici: uno smalto sulle unghie dovrebbe essere vernice colorata utilizzata come mezzo espressivo e non stigma di un’identità e di un orientamento. Quando abbiamo iniziato a farci comandare dalle cose inanimate?
Dopo quarant’anni, Mario Mieli può ancora essere attualissimo. Attualmente la Norma è un’ideologia governativa, nel senso fondante dell’attuale governo che utilizza parole e categorie della Norma per affermare la sua visione politica. In ogni richiamo di questi giorni alla cosidetta famiglia tradizionale per negare i diritti di alcune famiglie, il pensiero di Mieli ci mostra forse, ora come allora, la necessità di quel sovvertimento.
Colpo su colpo a ogni tentativo di retrocedere su quegli spazi di dignità guadagnati dalla morte del filosofo, riecheggia il monito della rivoluzione queer. Dell’importanza di essere fr*ci manifesti, direbbe, di essere apertamente, incontrovertibilmente, spudoratamente queer. Per chi non lo è e chi vorrebbe esserlo.
Ogni volta che una persona queer emerge, la Norma scricchiola. Perché con la nostra semplice esistenza la mettiamo in discussione. Anche agli occhi di chi gli si aggrappa per disperazione, solitudine, cecità o banale malvagità.
[Foto di: Maria Bosio]