L’invisibilizzazione è un’azione attiva che traccia un perimetro al di fuori del quale non sei percepito, non sei visto né ascoltato, semplicemente non esisti.
Ci sono molti modi di annullare l’essenza dell’altro. Ci sono molti modi per far sparire un corpo. Non in senso materiale (è perseguibile penalmente articoli 411 e 412, e 605 del codice penale, ma questo non deve far pensare che la giustizia penale sia un modello sempre efficace) ma in quello metaforico, dato che è sulle figure retoriche che si basa la comprensione delle cose del mondo, in quanto sistematizzazione della percezione e, quindi, anche far sparire dalla percezione sensoriale. Sulle figure retoriche e anche sulla spazializzazione, quel vago sentore di un pensiero occupante un preciso punto nello spazio.
C’era quel libro famoso che diceva che l’invisibile è essenziale agli occhi, e in effetti, si può voler vedere tutto? E mettiamo che non si possa vedere tutto, cosa rimane fuori, ma soprattutto chi?
Non si può vedere tutto per quieto vivere, tenuta di un io fragile che può sgretolarsi da un momento all’altro sotto i picconi di una realtà che quasi collima con desideri/aspettative/altro, totale mancanza di empatia, controllo.
Si dice “miopia”, “ristrettezza di vedute”, “avere i paraocchi”, l’invisibilità creata tramite l’esclusione dal campo visivo, è un processo attivo e selettivo. Cioè si crea un’assenza ben presente e ponderata. Si nega quindi. Si esclude qualcosa, si demarca un confine, una differenza, si separa uno spazio (anche il linguaggio in un certo senso separa e individua). Bastano un’idea, una regola, una legge, un muro, una stanza, un edificio, un’isola, un continente.
Qualche esempio. Il fascismo italiano non ha voluto inserire nel codice penale qualcosa di simile al paragrafo 175 prussiano, quello che ha permesso vari decenni dopo di uccidere i gay nei campi di concentramento, perché avrebbe significato ammettere che esistevano dei gay anche in Italia, tanto da doverne parlare addirittura dentro il codice penale. Stesso meccanismo omertoso del Don’t ask don’t tell dell’esercito USA. Stesso meccanismo per minori con varianza di genere: non c’è nessuna legge, lasciamo che la responsabilità sia dei genitori, delle scuole.
Finché non si nomina qualcosa, può continuare a non esistere e non perché non sia visibile ma perché lo si rende tale.
La fotografia, per esempio, funziona nel rapporto tra campo e fuoricampo, cioè tra quello che si vuole sia all’interno dell’inquadratura e quello che si vuole rimanga fuori, e tra fuoco e fuori fuoco. La pittura anche agisce su un piano simile, che non può essere ottico ma percettivo, tra figura e sfondo. Sono arti visive sì, che sono anche giochi e riflessioni sulla percezione, se così non fosse – avete presente Dov’è Wally? avete presente i quadri di Bosch e di Brugel il Vecchio? – non sentite quel senso di vertigine?
Le migliori tra noi intuiscono (guardano con gli occhi del cuore). Le altre si arrabattano in una reductio ad qualcosam che possa essere digeribile perché ai minimi termini. È un meccanismo frequente.
Possiamo avere davanti una persona, un individuo specifico e non vedere altro che un sagoma, una funzione, una caratteristica. Una sola caratteristica e quindi qualcosa di simile a una sineddoche, che poi è anche uno dei rischi della politica identitaria, quello di fornire una semplificazione di sé allo scopo di ottenere dei risultati politici molto puntuali (non nei tempi), anche a costo di perdere, ehm, la complessità.
Ma così vi autoghettizzate!
No, amo. I ghetti li avete inventati voi, noi al massimo ci separiamo.
Una parte della politica identitaria significa anche stabilire quali siano i confini, quali siano i criteri per dirsi di essere quella cosa lì. E se alcune identità sono giustapponibili e anzi formano una stringa identitaria complessa (quello che l’intersezionalità analizza rispetto alle oppressioni di ogni parte), altre sono in contrasto logico (come dire di una persone che è LGBT dato che è difficile essere contemporaneamente sia gay che lesbica che bi) e altre in un contrasto culturale (come essere frocie e di destra).
Ma cosa sono tutte queste etichette! Siamo tutti esseri umani!
No, amo. Io vengo dagli inferi. Genderqueer biblicamente accurata.
Quindi chi può stare all’interno di una determinata categoria e chi lo decide? Chi decide i criteri? Chi decide chi sta dentro e chi sta fuori perché non è abbastanza?
Soprattutto all’interno della popolazione trans c’è sempre stato un gatekeeping interno. A partire dal COGIATI, quel test online che in mancanza di altro veniva preso come affidabile, che stilava una classifica della transness in base a dei criteri piuttosto discutibili che comprendevano un intuito femminile più simile ai poteri ESP e i fiori. Poi la faida tra le operate e le non operate, tra le persone trans medicalizzate e quelle non medicalizzate, tra le binarie e le non binarie. Cercare un’integrità identitaria (mimetica volendo, che è il binarismo poi) da presentare al mondo fuori che altre possono rovinare, come un Natale perfetto distrutto dalla vita.
Identità fragile dicevo, ma anche pressioni sociali molto pesanti.
E anche le persone bi che non sono mai abbastanza omosessuali, le femme che non sono abbastanza lesbiche, le checche che non sono mai abbastanza maschie, le persone aspec che non sono abbastanza.
E non c’è abbastanza spazio per parlare della richiesta di visibilità che si fa coi pride e con le serie tv che i gianpeople sperano di vedere epurate da qualsiasi voglia elemento non eterocis e al contempo l’invisibilizzazione interna, non solo identitaria ma anche intersezionale. E tu ch* scegli di invisibilizzare?
[Foto di Elsa Campini – @elsacampini]