In vari paesi, come Malta, Belgio, Lussemburgo (e in Germania, se dovesse passare la nuova legge proposta dalla maggioranza di governo) per intraprendere il percorso di transizione basta un foglio: un consenso informato che garantisce l’autodeterminazione del singolo e della sua identità di genere. Un solo pezzo di carta, allora, potrebbe mettere fine a una serie di abusi, umiliazioni e discriminazioni a cui fino adesso siamo statз sottopostз. Perché, allora, non cerchiamo di allinearci agli standard internazionali? Sostituire la trafila psichiatrica con un consenso informato non vuol dire che il supporto psicologico e psichiatrico non sia spesso necessario per chi decide di intraprendere il percorso, ma c’è un’enorme differenza tra l’obbligo di sottoporsi ad una pesante patologizzazione del proprio essere e il supporto che uno Stato dovrebbe offrire, in maniera accessibile a chiunque, a chi sta andando incontro a dei cambiamenti importanti nella sua vita.
Secondo gli studi dell’Istituto Superiore di Sanità (dati 2022), le persone trans* in Italia sarebbero circa 400mila, circa lo 0,6% della popolazione, una stima al ribasso se pensiamo alla difficoltà nel fare coming out ed affermare al mondo la propria identità di genere.
Se il tasso di felicità e benessere di un paese si misurano in base a come vengono trattate le minoranze, la situazione italiana è desolante. Tra la popolazione trans* e non binaria, infatti, le ricerche ci restituiscono un dato allarmante: circa il 40% delle persone trans* soffre di depressione, con un tasso fino a dieci volte più alto rispetto alla popolazione generale, una percentuale che sale al 60% nella popolazione non-binaria. A tutto questo si aggiunge il triste primato italiano per vittime di transfobia in Europa nel 2022: Roma è la città più violenta ed è elevatissimo il tasso di suicidio, soprattutto tra i minori. Non possiamo non pensare a questa condizione senza considerare l’enorme tabù che nel nostro paese vige intorno alla salute mentale e alle neurodivergenze, così come sul suicidio, un argomento che si tocca a malapena, si sfiora; tra l’altro la stampa ne parla poco e male e il fatto, alla fine, rimane lì per noi ad appesantire il numero delle vittime, delle nostre sorelle che non hanno più voce.
Questa situazione è causata ed esasperata da una società patriarcale fondata solidamente sul binarismo di genere uomo-donna, che non ammette l’esistenza di una realtà terza e a malapena tollera chi quel binario cerca di scavallarlo, di attraversarlo. Le persone trans* e non binarie sono percepite come una minaccia per questo ordine costituito, una falla nel sistema.
La mancanza di formazione del personale pubblico e privato sui temi specifici riguardanti la vita delle persone trans* in ambienti fondamentali come istruzione e sanità ci rendono sempre più fragili ed emarginatз; il rifiuto e l’esclusione da parte della famiglia e del gruppo dei pari alza il concreto rischio di diventare homeless. Una legge di 41 anni fa, e che speriamo prossima alla pensione, l’umiliante ed infinita odissea del percorso di affermazione di genere completano il quadro; la visione della persona trans* come disturbata mentalmente o sessualmente, porta a un pericoloso allontanamento dal mondo sanitario, psicologico e psichiatrico da parte di chi è traumatizzatƏ o spaventatƏ a priori dal dover fare coming out e subirne le discriminazioni annesse. Poca prevenzione, pochi screen oncologici e pap-test, incostanza nei percorsi psicoterapeutici e psichiatrici, uno stile di vita meno salutare e tanto altro: questo il risultato del minority stress, dei continui episodi transfobici e della transfobia interiorizzata.
Ma allora cosa si può fare, cosa si dovrebbe fare per invertire la rotta? Oltre alla formazione del personale pubblico, abbiamo sicuramente bisogno di un cambio radicale nelle scuole, dove introdurre un diverso tipo di educazione (sessuale, sentimentale, alle differenze, al consenso) fin dalla scuola elementare: è necessario, anche per combattere la cultura dello stupro, la misoginia e la trans-misoginia. A livello nazionale, negli ultimi anni, non abbiamo visto altro che tiepide proposte al riguardo: nonostante si consigli un’educazione sessuale e al consenso già nella scuola elementare, in Italia il tema rimane un enorme tabù. L’educazione, sia sessuale che alle differenze, rimane un compito appaltato alle famiglie, poco o per niente in grado di sopperire all’enorme importanza che invece ricopre a livello sociale; il resto, subappaltato alla pornografia maschilista.
Ma oltre ad obiettivi di lungo termine, forse, per iniziare a cambiare e migliorare la vita delle persone trans* e per iniziare ad abbattere questi tabù, basterebbe una nuova legge e un pezzo di carta.
Al momento, in Italia, per iniziare la TOS (Terapia Ormonale Sostitutiva), per avere accesso ad eventuali operazioni chirurgiche e per ottenere la rettifica anagrafica (dove ancora, però, non è comunque riconosciuta la possibilità di inserire un genere “altro” rispetto a M o F), è necessario innanzitutto avere una perizia psichiatrica. Dopo il coming out “sociale” (totale o parziale: in ambito lavorativo, amicale, familiare, etc.), ecco che quindi ci si ritrova davanti al primo grande scoglio: la relazione di “disforia di genere”, passo necessario e fondamentale per il resto del percorso. Va innanzitutto detto che il percorso di affermazione di genere, e tutto l’iter, non è lo stesso per tutte le persone, e va adattato a seconda delle esigenze individuali; ad es. non tutte le persone trans* e/o non binarie vogliono sottoporsi ad operazioni chirurgiche e anche gli obiettivi a livello di terapia ormonale cambiano da persona a persona.
Questa terminologia sta iniziando, finalmente, a cambiare: la disforia di genere, classificata da sempre tra i disturbi mentali, nell’ICD-11 (International Classification of Diseases) del 2018 viene depatologizzata in “incongruenza di genere” e spostata in una nuova sezione dedicata alla salute sessuale. L’incongruenza di genere viene quindi definita come una “condizione caratterizzata da una significativa e persistente incongruenza tra identità di genere e sesso assegnato alla nascita”. Anche se quindi, a livello internazionale, le persone trans* non sono più considerate “malate mentalmente”, rimane una forte patologizzazione all’interno del percorso, soprattutto da parte di medichз, psichiatrз e personale sanitario in generale; in più, nella maggior parte dei casi, si continuano a firmare relazioni con la dicitura di “disforia di genere”, che ora si usa principalmente per indicare i casi in cui l’incongruenza sia avvertita come un forte disagio fisico. Questa, però, è un’esperienza del tutto personale, che si distingue in disforia fisica e sociale e che non tutte le persone trans* vivono ed esperiscono nelle stesse modalità; sarebbe anche ora, direi, che si smettesse di guardare alle persone trans* come in perenne sofferenza, anime in pena vittime di una genetica maligna. Il tema della rappresentazione, importante per quanto possa sembrare un più piccolo tabù, sta pian piano iniziando ad aprirsi alle nuove sfumature del genere, anche se spesso e volentieri è ancora in mano al rainbow-washing delle grandi piattaforme di streaming; solo a marzo 2023 usciva il “Propedeutico manifesto della rappresentatività” (sottoscritto in Italia dall’associazione trans* Libellula) come protesta contro la scelta, per i ruoli trans*, di persone cis nel teatro e nel cinema.
Il tabù che regna sulla sessualità e sul genere ci porta anche alla mancanza di informazione pubblica su quali e quanti sono i servizi e sul funzionamento del percorso, e che porta naturalmente le persone trans* a scoprire tardi le possibilità esistenti di migliorare le proprie condizioni di vita; il rapporto con lз psichiatrз (fondamentalmente delle persone cis) diventa un enorme ostacolo da affrontare. Come già detto, la mancanza di preparazione porta ad una serie di atteggiamenti transfobici e micro-violenze continue (ad esempio, misgendering e deadnaming) e conseguentemente ad una difficoltà ad esporsi da parte della singola persona, fino all’allontanamento e al rifiuto di sottoporsi a queste visite. Un’assenza fondamentale è quella di servizi pubblici che rilascino relazioni a costi contenuti e calmierati, vista anche, in media, la fragile situazione economica di tante persone trans*. Ma anche se, nel migliore dei casi, si trovi unƏ psichiatra e i soldi per poter pagare la relazione, ci si trova di fronte ad una batteria di test, spesso antiquati, inadeguati e umilianti quanto gli incontri; anche dove ci si trovi di fronte a professionistз apertз, informatз e non escludenti, questз sono comunque obbligatз a somministrare dei test che riguardano anche la sintomatologia dellз pazienti, necessario per poter convincere un giudice ad approvare i passi successivi.
Penso sia abbastanza chiaro da dove provenga il senso di umiliazione a cui ci si deve, obbligatoriamente, sottoporre: in sostanza, ci si deve rimettere a una persona cis che dovrà decretare se sei o meno “abbastanza trans”, decreto che giunge alla fine di una serie di domande e test molto personali, che possono riguardare i genitali della persona in questione, le proprie abitudini sessuali (ad es. quante volte ci si masturba…) e che poco hanno a che vedere con la propria identità di genere.
Ovviamente, al di là dell’esperienza personale, queste situazioni cambiano molto a seconda del contesto in cui ci troviamo: regione per regione, nord rispetto al sud, città rispetto alla provincia (dove spesso certi servizi non esistono proprio) e, purtroppo, da professionista a professionista. Se in città più grandi troviamo qualche servizio in più e più aggiornato, esistono realtà diverse e più “arretrate”, dove questi tabù rimangono quasi del tutto inviolabili: da qui escono esperienze discriminatorie sotto più fronti e che costringono le persone a dover abbandonare casa, città, regione o persino Stato. Un esempio concreto è dato dal rifiuto di vari centri del centro-sud di redigere la relazione a persone trans* autistiche, scaricando la “confusione” di genere come portato dell’autismo, contribuendo ad infantilizzare le persone nello spettro e invalidando la loro autodeterminazione.
Una volta ottenuta, faticosamente, la relazione si può iniziare il trattamento ormonale, considerato ormai salvavita e completamente gratuito se ci si rivolge, con il piano terapeutico, al presidio farmaceutico della propria ASL di riferimento; con esso parte l’infinito iter burocratico per avere l’autorizzazione per le operazioni chirurgiche e la rettifica anagrafica da parte del tribunale di residenza, che può durare anni e che, anche qui, è fin troppo legato alla singola sentenza del singolo giudice.
Allora, questo pezzo di carta? In vari altri paesi, come Malta, Belgio, Lussemburgo (e in Germania, se dovesse passare la nuova legge proposta dalla maggioranza di governo) per intraprendere il percorso basta un foglio: un consenso informato che garantisce l’autodeterminazione del singolo e della sua identità di genere. Un solo pezzo di carta, allora, potrebbe mettere fine a una serie di abusi, umiliazioni e discriminazioni a cui fino adesso siamo statз sottopostз.
Secondo gli standard di cura del WPATH (World Professional Association of Transgender Health), per poter accedere al trattamento ormonale devono essere soddisfatti questi criteri: “incongruenza di genere marcata e stabile; capacità di fornire il consenso informato al trattamento; se sono presenti problemi di salute fisica e/o psicologici potenzialmente interferenti con l’esito della terapia, questi devono essere presi in carico; comprensione degli effetti della terapia ormonale sulla fertilità e discussione delle possibilità di preservazione della fertilità”. Perché, allora, non cerchiamo di allinearci agli standard internazionali?
Sostituire la trafila psichiatrica con un consenso informato non vuol dire che il supporto psicologico e psichiatrico non sia spesso necessario per chi decide di intraprendere il percorso, come scritto appunto anche dal WPATH: ma c’è un’enorme differenza tra l’obbligo di sottoporsi ad una pesante patologizzazione del proprio essere e il supporto che uno Stato dovrebbe offrire, in maniera accessibile a chiunque, a chi sta andando incontro a dei cambiamenti importanti nella sua vita. Inoltre, abbiamo un serio bisogno di includere le esigenze specifiche delle persone non-binarie, ad esempio per quanto riguarda il microdosing ormonale, cercando di personalizzare il più possibile la TOS.
Davanti a queste proposte si alzano spesso delle critiche, soprattutto per quanto riguarda i limiti di età per l’accesso alle terapie e/o alle operazioni chirurgiche: si può iniziare a 14, a 16 o tocca aspettare la maggiore età? È importante qui fare delle considerazioni generali, sia dal punto di vista psicologico che biologico. Se la pedagogia ci dice che lз bambinз iniziano ad avere consapevolezza dei propri caratteri sessuali e di quelli altrui già, circa, all’età di 7 anni, l’esperienza ci restituisce una realtà fatta di ragazzз adolescenti e preadolescenti già consapevoli della propria identità di genere. Prendiamo quindi in considerazione due fattori importanti, la pubertà e la depressione. La terapia ormonale consiste nella somministrazione di ormoni femminilizzanti (estrogeni) o mascolinizzanti (testosterone) e dai bloccanti degli ormoni: questo percorso, soprattutto all’inizio, è del tutto reversibile, smettendo semplicemente l’assunzione dei farmaci e lasciando che il corpo riproduca naturalmente gli ormoni che ha sempre prodotto. La terapia consigliata in questa fascia d’età (diciamo 14-16 anni) prevede infatti inizialmente dei bloccanti degli ormoni per “ritardare” la pubertà: la pubertà e l’adolescenza possono essere un periodo difficile per tuttз noi ma può essere devastante per chi sente già che il proprio corpo verrà stravolto in direzione contraria al proprio sentire, alla propria identità di genere. E qui rientra in gioco la depressione: come abbiamo detto, siamo più portatз alla depressione e al suicidio rispetto al resto della popolazione, soprattutto tra i minori, fetta della popolazione che, rispetto a decenni fa, grazie ai social e alla caduta di certi tabù, sono sempre più precocemente consapevoli della propria identità di genere.
Contrariamente alla retorica destrorsa e transfobica del “traviare lз bambinз” (le stesse identiche accuse che arrivavano nei confronti degli omosessuali decenni fa…), cercare di far iniziare il percorso il prima possibile è una questione di prevenzione del suicidio. In più, ritardare la pubertà e/o intanto iniziare la terapia ormonale prima dello sviluppo completo, porta a risultati nettamente migliori nelle modifiche del corpo. Questo dato è particolarmente vero soprattutto per quanto riguarda la terapia femminilizzante o al contrario per bloccare la crescita del seno, solitamente grande fattore di disagio e disforia per le persone AFAB (Assigned Female At Birth). Se il consenso dei genitori è necessario quando parliamo di preadolescenti, dovremmo iniziare a smettere di considerarlз come incapaci di volere e di una consapevolezza più o meno profonda del proprio io e di come si vuole apparire: l’affermazione di un tribunale che possa risolvere il conflitto minore trans*-genitori mi sembra fondamentale. Aspettare anni e anni per la terapia, magari con il rifiuto costante dei genitori, non è come aspettare i diciotto anni per farsi un tatuaggio: significa vedere il proprio corpo che cambia nei suoi aspetti sessuali primari e secondari, mutamento che può portare a una disforia accentuata, alla difficoltà ad affermare il proprio sé, con possibile sviluppo di disturbi mentali e fenomeni di autolesionismo.
Un discorso diverso riguarda l’accesso alle operazioni chirurgiche che chiameremo “primarie”, quelle riguardanti il seno e/o i genitali. Lasciando intatta la sacrosanta autodeterminazione della singola persona e il suo diritto a sottoporsi consensualmente a qualsiasi operazione chirurgica si voglia, c’è comunque una grande differenza tra la terapia ormonale reversibile e delle operazioni chirurgiche potenzialmente molto pericolose e non reversibili. Qui è ovviamente più delicata la situazione del consenso da parte dei genitori nei confronti del minore. Personalmente, sono convinta che in una società non fondata su un rigido binarismo di genere, meno sessualizzata e non ostracizzante nei confronti delle persone dal genere non conforme, cadrebbero tutte quelle prescrizioni di come debba essere una donna e come debba essere un uomo affermando e riconoscendo tutte le varianti possibili dell’identità di genere degli esseri umani. Cadute queste, ci sentiremmo meno a disagio con il nostro corpo, con il nostro essere e l’accettazione, propria e altrui, ci porterebbe tuttз ad avere meno quel sentimento di urgente bisogno di stravolgere il nostro corpo.
Intanto? Intanto abbiamo bisogno di un cambio radicale, che permei la società tutta, a partire dalla famiglia, la scuola, la sanità; abbiamo bisogno di abbattere un tabù dopo l’altro, dalla sessualità alla salute mentale; abbiamo bisogno di essere vistз, riconosciutз e riconosciuti i nostri bisogni, le nostre esigenze specifiche; abbiamo bisogno di formazione del personale pubblico e privato con cui ci rapportiamo tutti i giorni; abbiamo bisogno di depatologizzare il percorso e le nostre vite, di de-medicalizzare il corpo delle persone trans*; abbiamo bisogno di eliminare un iter burocratico umiliante e respingente. Abbiamo bisogno di tante cose, sì, ma possiamo iniziare da un pezzo di carta.