Io non farò mai figli – urlavo orgogliosa e ribelle quando ancora da adolescente mi pensavo eterosessuale. Era il mio modo di trasgredire, di restare nell’alveo di una diversità che potevo sostenere, di ribellarmi al costrutto secolare che voleva e vuole le donne destinate inesorabilmente alla procreazione.
Quando mi sono scoperta lesbica ho cominciato a pensare, con lo stesso cipiglio, che dato che la riproduzione lesbica è ampiamente osteggiata, oltre che imprevista dal modello famigliare dominante, invece allora sì, i figli li avrei fatti.
Avevo una ventina d’anni e già, come tutte, con intensità e gradi diversi, avevo affrontato alcuni degli effetti più spaventosi del patriarcato.
In questi anni mi sono avvicinata e allontanata all’idea di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita – l’unica via per me possibile per una gravidanza – andandoci qualche volta vicinissima e sentendomene poi tirata via come da un elastico. Occorrono moltissimi soldi, una certa stabilità interiore, oltre che sentimentale, non facile da raggiungere. D’altra parte il femminismo mi insegna che non è la maternità a definire la mia femminilità o peggio il mio valore, il pianeta in fondo non ha realmente bisogno di altri esseri umani, anche se in Italia il crollo demografico dovesse lasciare solo anziani e anziane, il cambiamento climatico ci promette scenari apocalittici e non è la famiglia, stretta attorno alla coppia, il mio orizzonte sociale e politico. Ribadivo dentro di me ciò che era sempre stato l’ovvio, eppure il desiderio è un logorio irrazionale, un tarlo che rosicchia le barriere culturali, qualunque esse siano. Del resto, come scrive Toni Morrison in Amatissima, “arrivare in un posto dove uno poteva amare tutto quello che voleva – senza dover chiedere il permesso di desiderarla – be’, ecco, quella sì che era libertà.” Ecco, il desiderio non chiedeva il permesso a nessuna razionalità.
La vita sulla soglia spaventosa dei quarant’anni mi ha regalato improvvisamente una nuova e inaspettata relazione stabile che ha rafforzato il pensiero silenziato. La mia compagna non ci aveva mai pensato, ma piano piano è scivolata con me in questa visione.
Un pomeriggio mi ritrovo a digitare su google: lesbiche, maternità. Viene fuori un numero da chiamare, prenoto un appuntamento telefonico. Dentro di me penso che sia una bufala. Sono incredula. Non posso ancora pienamente concederlo a me stessa. La voce femminile dall’altra parte del cellulare ci dà informazioni sulle cliniche europee: la Spagna, la Germania, la Danimarca. E’ la Germania quella che attrae subito la mia attenzione perché, a differenza della Spagna, offre la possibilità di avere un donatore aperto. Questa è una scelta personale, per le ragioni più varie. A noi istintivamente l’anonimato fa paura, vogliamo lasciare all’eventuale figlio o figlia la libertà di scegliere se conoscere o meno l’identità del donatore, fosse solo per semplice curiosità. La signora al telefono ci dice che il percorso tedesco è molto più difficile, ci sembra scoraggiante, ma noi vogliamo provare lo stesso, è tutto talmente surreale e avventuroso che siamo pronte ad affrontare questa scalata insieme. Ci viene organizzato un incontro on line con una clinica di Berlino. Nella città del conflitto del secondo dopoguerra non sono mai stata, così indugio, come spesso mi capita, con il pensiero magico, figurando risignificazioni storiche, intrecci di angeli caduti da quel cielo sopra Berlino. Non so se queste fantasie ci aiutino a galleggiare nelle ingiustizie che viviamo o contribuiscano in fondo all’assuefazione, all’evasione pericolosa dalla realtà. La verità è che io di PMA non sapevo assolutamente nulla. E pochissimo anche del mio apparato riproduttivo. La società, la cultura che mi ha accolta nel mondo in nessun modo ha facilitato il mio approccio alla questione. Come lesbica la via della maternità è semplicemente preclusa, dunque nessuna informazione ci raggiunge. La nostra è una ricerca di fortuna, di conoscenze, di passaparola, di sottobanco. Si tratta di temi tabù anche per le coppie eterosessuali del resto, le quali più spesso ne fanno ricorso tenendolo nascosto. Sul tema leggerò in seguito due libri che trangugerò, come se fossero acqua nel deserto, una raccolta di testimonianze e un romanzo, In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita di Maddalena Vianello (edizioni Fandango) e Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi (edizioni Einaudi). Sono molto grata al coraggio e alla determinazione di queste scrittrici e delle donne che, regalando la loro esperienza, hanno rotto la cortina di ferro sul tema. Il coraggio è contagioso e senza di loro non avrei trovato le parole io.
La dottoressa di Berlino è gentile e disponibile, i termini tecnici inglesi sono tanti, vorremmo la possibilità di avere un dialogo intimo e spontaneo, ma ce la caviamo, mi vengono innanzitutto prescritte le analisi per valutare i livelli ormonali e delle ecografie. Qui comincia l’avventura.
Prenotare le analisi in concomitanza con il ciclo, cercare uno o una ginecologa lgbtq friendly, senza pensare che sarebbe stato forse più funzionale averne anche una esperta di PMA. Scegliere una banca del seme e un donatore, contattare un avvocato tedesco per la documentazione richiesta. Un percorso che si può fare solo a piccolissimi passi e senza guardare lo strapiombo. Le analisi mostrano che la mia riserva ovarica negli ultimi cinque anni è caduta in picchiata. Della mail successiva della dottoressa ricordo solo la prima parola: unfortunately. Le inseminazioni artificiali hanno una percentuale molto bassa di riuscita, soprattutto nelle mie condizioni, e la dottoressa ci consiglia di tentare la via della fecondazione in vitro, che prevede una stimolazione ovarica e un monitoraggio ecografico specialistico. Il tutto richiede una permanenza a Berlino di almeno dieci giorni e rimandiamo all’estate successiva. Nel frattempo ordineremo dalla Germania degli ormoni che agevolano i livelli di fertilità e dall’Olanda le costosissime punture che devono essere rigorosamente conservate in frigo. Intanto la fantasia non può che navigare, come appagamento dalla fatica. In Germania ci sono solo bambine e bambini, novelli Hansel e Gretel che noi salveremo dal bosco. Sbucano da ogni dove, corrono felici per le strade, svettano nei carrozzini plurigemellari. Trascorriamo due settimane facendo le punture che non sappiamo fare nei bagni dei locali queer o dei musei, discutiamo di nomi nelle pause. Io non bevo alcolici. Del cosiddetto pick-up, cioè dell’intervento per il prelievo degli ovociti, nonché della mia prima anestesia totale, ricordo solo due cose: la voce della dottoressa che al risveglio mi dice: seven, sette follicoli; e la lacrima che mi scende quando resto sola nella stanza. Qualcosa di traumatico mi è accaduto, anche se dormivo. Il giorno del transfer mi sento come una leonessa, un percorso lunghissimo mi ha portato lì, e io ho inspiegabilmente tutta l’energia dell’universo, è il giorno prima di San Lorenzo, anche se nel cielo nuvolo di Berlino non si vede nemmeno una stella. Mi vengono impiantati due blastocisti di buona qualità, un terzo verrà congelato. Su cosa debba succedere nelle ore successive ci sono diverse teorie: c’è chi raccomanda l’immobilità per 24 ore, chi dal giorno successivo e per tre giorni, ma a noi piaceva molto il metodo tedesco. La dottoressa è chiara: enjoy. Fate la vostra vita tranquillamente, certo magari evita di fumare o la cocaina… Sorrido, non fumo né uso cocaina. La dottoressa prosegue: questi accorgimenti non fanno altro che colpevolizzare la donna, quando la responsabilità del non attecchimento è soprattutto dell’embrione. Il resto è praticamente già dolce attesa. Impossibile non cadere nel tranello, siamo così stanche, che dobbiamo avercela fatta per forza, anche se conosciamo le percentuali di riuscita. La famiglia, gli affetti e le amiche ci sostengono, senza di loro tutto questo sarebbe stato impensabile. Le reti di sfamiglie su cui contiamo e che amiamo. Abbiamo parlato con tutte, non ci siamo risparmiate.
Quando ricevo il risultato negativo delle analisi piango disperatamente. Ci troviamo in Abruzzo a casa di mia madre. Decidiamo in un moto di rivalsa improvviso di andare al mare, io porto gli occhiali da sole, non rispondo a nessuno, piangerò per tre giorni di seguito. Il sangue mestruale scorre nei giorni successivi, decido di non raccoglierlo, voglio che macchi il bagnasciuga, che tutti lo vedano. Anche la mia compagna crolla la mattina dopo.
Il secondo transfer autunnale, ugualmente non andato a buon fine, mi darà meno dolore, lo accolgo ormai con un certo disincanto.
Oggi mentre, unite come prima, ci accingiamo a ricominciare tutto daccapo: visite, viaggi, punture, analisi, spese stellari, tra sensi di colpa, rimuginii, sbalzi ormonali e pesi di varia natura, cerco sollievo nella scrittura, nella consapevolezza che la nostra voce è quella di tante – di tutte – nella certezza del rifiuto del silenzio.
Mentre eravamo a Berlino abbiamo partecipato alla dyke march, ai pride, al sit-in di fronte all’ambasciata italiana promosso in varie città europee dalla Comunità Lesbica dell’Europa e dell’Asia Centrale (EL*C) in solidarietà con le italiane, che nel frattempo osservavano attonite la restrizione dei propri diritti e contemporaneamente l’approvazione alla Camera del disegno di legge che criminalizza la gestazione per altri e altre, e la cosiddetta compravendita estera di gameti. L’inverosimile, se si considera che già la legge che regolamenta la procreazione medicalmente assistita in Italia, la legge 40, con tutte le sue restrizioni (per le lesbiche, per le donne single e non solo) è una vergogna in uno Stato che si dice costituzionalmente laico. Atroce pensare che questa lunga strada, per le fortunatissime che possono festeggiarla con un lieto fine, conduca poi le coppie dritte verso tutte quelle altrettanto lunghe trafile giudiziarie che da sempre investono le famiglie arcobaleno e il riconoscimento dei diritti di entrambe le madri, dei loro figli e figlie. Non ce la faremmo mai se al di là della staccionata non ci fosse la vita stessa, la nostra sopravvivenza, la nostra dignità, i legami che tessiamo, i desideri, e il mondo più giusto per il quale continueremo a lottare.
[Foto di Deon Black]