“Che fai al pride?”. È la domanda che inizia a serpeggiare tra la fine di maggio e i primi di giugno, prima vaga e poi sempre più insistente. “Ah ma è il dieci giugno? E a Milano quando?”. “Ma tu ci sei?”. “Ma con chi vai?”. “Sei su qualche carro?”.
Ci si scrive, qualcuno ancora telefona, si prepara assieme la giornata, se qualche amica sta da sola la si invita, un po’ come si farebbe con un’amica che non sa con chi trascorrere il Natale. Perché il pride ormai è il nostro Natale, di questo sono ormai convinta, ed esattamente come il Natale è un momento di riflessione, celebrazione e condivisione ma ormai anche di chiassoso consumismo, una festa pagana (e pure pacchiana, suvvia) dal portato simbolico fortissimo. C’è chi va a messa e chi si legge il documento politico, c’è chi lo trascorre con i parenti e chi con la famiglia di elezione, c’è chi sta in prima fila a reggere lo striscione e chi urla dal carro, chi balla sotto cassa e poi non ha le forze di andare alla festa e chi percorre il corteo avanti e indietro “per vedere com’è la situazione quest’anno”, c’è chi porta la nuova fiamma per pomiciare e chi per sottoporla allo scrutinio delle ame, chi cerca di evitare l’ex e chi spera di rimediare almeno un limone, chi fa le foto e chi il giorno dopo si lamenta di quelle apparse sui giornali, ma tutta questa varietà di comportamenti non fa che confermare una cosa: il pride ormai è un’istituzione.
Nonostante non abbia nemmeno trent’anni (o forse quarantacinque, ad una signora non si chiede l’età) è entrato a far pare della nostra tradizione nel giro di pochissimo tempo. E oggi ci concediamo il lusso di lagnarci di “doverci” andare come adolescenti ribelli. Ma com’è stato possibile?
In questo articolo andremo a ripercorrere la storia del pride attraverso le parole di chi queste manifestazioni ha contribuito a organizzarle, ad animarle, e in primo luogo a immaginarle.
Si tratta, ve lo anticipo, di una pluralità di voci che a volte sono in contrasto fra loro. Questo perché fortunatamente la nostra storia è ricca a sufficienza ormai da avere maturato percorsi ed esperienze differenti nel corso degli anni di militanza. È proprio questa pluralità fa sì che la genesi del pride all’italiana si perde nella leggenda: i suoi prodromi risalgono ad almeno venti anni prima della data ufficiale. Lo definisco pride all’italiana perché contiene ribaltamenti di sorti degni della nostra migliore tradizione cinematografica, riuscendo ad avere persino un lieto fine da commedia, nonostante gli inizi confusi.
Le protagoniste e i protagonisti di quella favolosa stagione politica che trova negli anni settanta il suo epicentro infatti hanno idee discordanti sulla sua nascita. Chi la fa risalire ai moti di Bologna del 1977 e chi identifica nelle giornate dell’orgoglio omosessuale del 1980 il primo vero pride, chi cita la Torino del 1978, chi la Pisa del 1979, chi il Cassero del 1982.
Quello che viene fuori da questa diatriba è che forse bisogna nascere molte volte, e in molti luoghi, per venire davvero alla luce. Quello che è certo è che sono state necessarie molteplici spinte, provenienti da più fronti, perché la comunità lgbtqia+ si decidesse a venire fuori dall’armadio e a scendere in piazza. Nell’arazzo della storia del movimento lgbtqia+ italiano, i prodromi del pride costituiscono un disegno ricco e intricato, da decifrare inquadrandolo nel contesto sociopolitico di quegli anni.
Facciamo allora un salto indietro nel tempo, ben prima di quel 1994 che per convenzione facciamo corrispondere con il primo pride e tuffiamoci nel decennio della librazione sessuale: gli anni Settanta. Quell’irripetibile decennio che vede la legalizzazione del divorzio (1970), dell’aborto e della pubblicità ai contraccettivi (1978), la riforma del diritto di famiglia (1975) e… un documento della Congregazione per la dottrina della fede “su alcune questioni di etica sessuale, Persona Humana (1975). Perché siamo nel Paese che ospita il Vaticano. E casomai l’aveste rimosso, tenetelo a mente perché ne riparleremo.
Andiamo così al 5 aprile 1972: Stonewall, la rivolta madre di tutti i pride è stata appena tre anni prima, nel 1969. E in effetti quella del 1972 è considerata la Stonewall italiana. Una rivolta sì, ma non contro la polizia, bensì contro il convegno di sessuologia che si tiene al Casinò di Sanremo sui “comportamenti devianti della sessualità umana”.
La parola “deviante” vi fa venire in mente qualcosa? Se avete pensato alla destra conservatrice ci avete azzeccato. Si parlava, in quel congresso, di terapie riparative, ovvero quelle procedure indirizzate a eradicare l’omosessualità dall’individuo.
Sanremo è la prima uscita pubblica del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Italiano) nato a Milano l’anno precedente. Angelo Pezzana, uno dei fondatori, si iscrive insieme a Carlo Sismondi al convegno dichiarandosi psichiatra. La contro manifestazione, che non è un corteo ma un sit-in, come si faceva all’epoca, vede quaranta, fra uomini e donne, davanti Casinò per contestare una scienza ancora intrisa di bias omo-bi-lesbo-transfobici, che identificano nella penetrazione eteronormata l’unica sessualità “sana”. Di quella manifestazione ci rimane l’immagine iconica di Mario Mieli, foulard in testa e rossetto sulle labbra, che distribuisce volantini, e la presa di coscienza del movimento di poter scendere in piazza, nonostante le ripercussioni durissime legate all’inevitabile coming out.
Sono anni, ricordiamo, in cui l’omosessualità viene ancora considerata una malattia. L’APA (American Psychiatric Association) la eliminerà dal novero delle patologie mentali del DSM l’anno seguente e solo nel 1990 l’OMS la cancellerà dall’elenco delle malattie mentali (per la disforia di genere toccherà aspettare il 2018). Omosessuali, lesbiche e trans vengono considerati, ancora in quegli anni di liberazione sessuale, devianti, malati, meritevoli più di cure psichiatriche che di diritti. Il ghiaccio però è rotto. Il tumulto delle contestazioni studentesche iniziate nel decennio precedente, di quelle politiche e di quelle femministe invade anche la comunità queer, che negli anni seguenti continuerà, in maniera episodica, a scendere in piazza. Franco Grillini, oggi presidente onorario di Arcigay, fa risalire proprio ad una manifestazione di piazza il prodromo dell’attuale pride:
A Bologna l’undici marzo di quell’anno era stato ammazzato dalla polizia Francesco Lorusso (militante di Lotta Continua, NdA).
E nei giorni seguenti ci fu a Bologna:
la prima manifestazione in assoluto, dentro al movimento studentesco. Ci fu un’iniziativa del movimento bolognese gay di allora, il “Collettivo di liberazione sessuale” CLS, poi ci fu il grande appuntamento del 1977 gestito da Dario Fo, (Il Movimento scelse Bologna per il Convegno nazionale contro la repressione, tenutosi dal 23 al 25 settembre 1977, NdA) 77.000 persone, che vide l’intervento di Mieli dal palco. Un intervento a dire il vero molto criticato dal pubblico, anche da Fo, perché era molto provocatorio, a me non piacque perché Mieli insultò il pubblico, quando quella era una piazza simpatetica. Nell’ambito di questo movimento ci fu anche un intervento del nostro gruppo, che aveva cambiato nome in Circolo Frocialista. Allora ci fu un’assemblea e poi un corteo con 200 persone.
Seguirono altri eventi in giro per l’Italia, a Bologna ma anche a Torino, dove nel 1978 ebbe luogo il sesto congresso del Fuori! (Dal 19 al 25 giugno) e la settimana del film omosessuale.
Un altro importante evento, che altre persone considerano essere la Stonewall Italiana, è la manifestazione organizzata dall’associazione Orfeo che si svolse a Pisa il 24 Novembre 1979 (a dieci anni da Stonewall). Si trattò, più che di pride, di una manifestazione contro l’omofobia, scatenata dall’omicidio di Dario Taddei, un omosessuale di Livorno. È la prima manifestazione patrocinata dal comune, partecipata da circa 500 persone. Benché fosse una manifestazione contro l’omofobia (diremmo oggi) si tratta comunque di una manifestazione di orgoglio, poiché all’epoca scendere in piazza facendo coming out come “frocia” lo era, come testimoniano anche i numerosi cartelli.
Gli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta vedono la nascita di altre sigle, come per esempio il Collettivo NARCISO (Nuclei Armati Rivoluzionari Comunisti Internazionali Sovversivi Omosessuali) di via dei Campani a Roma, fondato da fuoriusciti del Fuori tra cui Porpora Marcasciano, presidente onoraria del MIT (Movimento Identità Trans) che identifica nella manifestazione bolognese del 27-28 giugno del 1980 la prima festa dell’orgoglio nata su iniziativa di Lambda, rivista omosessuale Torinese, e del “Collettivo frocialista” di Bologna, poi ribattezzatosi “Movimento 28 giugno”, e proprio di questo collettivo faceva parte Franco Grillini, che racconta:
Non fu un vero e proprio pride nel senso che non c’era il corteo come oggi, ma un girotondo immortalato da Rodella. Furono vari due giorni di attività intensa, e la manifestazione fu seguita da nomi importanti della stampa nazionale come Giovanni Riotta. Mi piace ricordare un aneddoto: le giornate si conclusero con il consumo di 2-3 cassette di finocchi freschi da parte degli astanti. Era un movimento creativo, quello bolognese…
Furono gli eventi di questi anni che portarono alla presa del Cassero di Porta Saragozza nel 1982, in cui il sindaco di Bologna Renato Zanghieri consegna all’associazione che poi diventerà Arcigay, le chiavi del posto. Grillini infatti vede nella “presa del Cassero” del 1982 la nascita del primo pride:
Con l’inaugurazione della sede il 26 giugno 1982 si fa un corteo vero e proprio, quindi per me si può chiamare pride. È una cesura tra il prima e il dopo perché il movimento per la prima volta ha un confronto con le istituzioni e c’è un passaggio da un’attività solo culturale, alla politica.
Sull’importanza del sostegno proveniente dalle forze politiche si esprime anche Porpora Marcasciano:
Era un periodo in cui c’era una riconquista da parte della sinistra di portare avanti il discorso diritti umani, la sinistra aveva un peso e stabiliva anche degli equilibri, quindi avevamo una protezione politica non da poco.
Non si può fare a meno di notare che all’epoca, sia nelle comunicazioni del movimento che sulla stampa si usa molto la parola gay (come si intuisce già dalla scelta della parola frocialista, che pure adoro). Ne chiedo conto a entrambi, e Grillini mi spiega:
All’epoca non c’è la sigla, si usa la parola gay. Si usa la parola travestiti, bisogna aspettare i ’90 per la parola transessuale. Quando facemmo il corteo di inaugurazione del Cassero eravamo 150 e c’erano solo maschi, pochissime donne, e travestiti come si diceva allora. Il movimento era essenzialmente maschile perché le lesbiche erano nel movimento femminista ed era essenzialmente separatista. Per dirti il Tiaso (primo collettivo lesbico di Bologna, NdA), che era capitanato dalla mitica Luki Massa, anche se era al Cassero si considerava separato.
Porpora Marcasciano, già all’epoca parte del MIT, nato proprio nel 1980, concorda:
Era un movimento molto fluido. C’era certamente un’ egemonia dei gay, le lesbiche non avevano una visibilità forte all’interno dl movimento perché stavano in quello femminista, che sentivamo vicino come loro lo erano con noi, ma erano due cose a sé stanti, pur essendo entrambi movimenti dei diritti civili. Il MIT c’era all’epoca di quella manifestazione, ma era come se i 3 piani con confluissero. La presenza di femministe e trans c’era, ma chi poi portava avanti era il movimento gay. Su questo non ci si poneva un problema. All’interno di questo movimento gay infatti c’erano molte persone che poi avrebbero iniziato la transizione. Ce n’erano davvero tantissime (di persone MtF, NdA). La questione è che non c’erano ancora le parole ben chiare per definirsi e per descriversi. Oggi c’è un vocabolario ampio, ma prima nella parola gay confluiva un po’ tutto.
Le questioni degli anni ’70 legate alla sessualità e al genere rivestono una doppia importanza, non solo perché spiegano la carica dirompente che la liberazione sessuale ebbe sulla socialità gay, ma perché custodiscono il mistero della lunga separazione fra gay e lesbiche in quei primi anni di militanza: le lesbiche si muovevano all’interno del movimento femminista, all’epoca interamente separatista. Il quale da un lato era impegnato sul fronte della liberazione sessuale, dall’altro doveva fare i conti con le conseguenza che quella liberazione sessuale aveva sulle donne: le gravidanze indesiderate. Concentrato com’era sulla prevenzione delle gravidanze, e sul diritto all’aborto, il movimento femminista mise da parte le istanze della componente lesbica, che dovette aspettare la messa in sicurezza delle leggi sulla IVG per manifestare autonomamente, organizzando il primo incontro nazionale del CLI (Collegamento Lesbiche Italiane) nel cortile della Casa Internazionale delle donne il 26/28 giugno del 1981 e un convegno (non ancora pride) nel dicembre dello stesso anno. Fra i due eventi, il 22 ottobre si tiene al Pantheon una manifestazione a sostegno delle due donne arrestate ad Agrigento per essersi scambiate un bacio in piazza.
Come racconta Rosanna Fiocchetto in “La prima volta in piazza da sole”:
Come lesbiche, ci siamo immediatamente riconosciute in quell’atto “osceno” che è solo un modo di esprimere le nostre emozioni e abbiamo mandato telegrammi di solidarietà alle due arrestate. Volevamo che non si sentissero sole. Altre compagne hanno indetto un’assemblea al Governo Vecchio e abbiamo tutte deciso di fare un sit-in a piazza del Pantheon a Roma […] ci siamo ritrovate in piazza in 120-130, quasi tutte lesbiche, con tanti cartelli e sotto i lampi di un nugolo di fotografi.
I volantini distribuiti sono firmati da “donne del movimento femminista di Roma” e nonostante la maggioranza lesbica, c’erano anche donne eterosessuali a sostegno. Non può essere considerato un pride lesbico, ma è certamente un episodio che segna un punto di svolta per le lesbiche italiane. È la prima volta che scendono in piazza dopo aver sfilato insieme alle donne etero nella manifestazione dell’8 marzo 1979. Sempre Fiocchetto ricorda:
Ricordo lo sdegno e la solidarietà che spinsero a partecipare alla manifestazione donne di tutte le età che fino a quel momento avevano avuto timore di una visibilità lesbica; donne che avevano percepito il bacio incriminato come un gesto privato che era diventato politico proprio perché sottoposto a sanzione, e che volevano dare una risposta politica alla repressione esercitata sull’amore tra donne. Piazza del Pantheon, adiacente al parlamento ma affollata di gente, era il posto ideale dove fare volantinaggio e al tempo stesso incrociare con una presenza attiva gli “addetti ai lavori” che uscivano dal luogo istituzionale dove venivano sancite quelle leggi usate cosi’ spesso contro di noi.
Gli anni ottanta diventano così l’epoca d’oro del lesbofemminismo italiano mentre per i gay gli anni Settanta sembrano finire davvero nel 1983, quando l’AIDS arriva in Italia. Con la malattia il movimento, fino a quel punto incentrato sulla liberazione sessuale, entra una sorta di paralisi, dettata dalla paura del virus da un lato, e dallo stigma, questa volta della “peste gay” che torna ad affliggere la comunità dopo anni di emancipazione. La paralisi in realtà è soltanto apparente, perché il movimento è più attivo che mai, impegnato come una sorta di unità di crisi, a farsi carico della gestione dell’emergenza. Anche perché sembra proprio che lo stato italiano se ne disinteressi completamente. In quel decennio di lutti, è proprio l’AIDS, e non il pride, a riportare i corpi in piazza.
Ricorda ancora Grillini:
Il 16/21 giugno 1991, a Firenze c’è la settima conferenza mondiale sull’AIDS. Organizzammo come Arcigay una manifestazione, passavo ore al telefono col questore. Act up (AIDS Coalition to Unleash Power, NdA) voleva lanciare colori sui monumenti di Firenze come fanno oggi i manifestanti per il clima. Mi opposi. Ne seguì una litigata furibonda e alla fine dissi “Siamo in italia, comandiamo noi, dovete fare come diciamo noi”. Ma ormai la voce si era sparsa, le autorità publiche erano isteriche, c’era una quantità di politica mostruosa. L’intera stampa nazionale seguì l’evento e ci fu la prima grand manifestazione, con 90.000 persone per strada. Era una cosa sentitissima, perché non c’era ancora la terapia, che arrivò nel 1996. La richiesta era alla scienza di trovare un rimedio.
Alla manifestazione c’erano anche molti etero, ma lo zoccolo duro della manifestazione erano i gay. Furono le prove generali del pride, ma questa manifestazione non se la ricorda nessuno perché oggi c’è una rimozione della memoria inquietante, ma fu importantissima. Mi feci la testa del corteo con l’allora questore, che se quel giorno poteva stare a Honolulu l’avrebbe fatto volentieri, tanta era la paura che succedesse qualcosa, ma garantii che non sarebbe successo. E non successe.
C’era Giovanni Battista Rossi, un autentico eroe italiano della lotta all’AIDS (A cui dobbiamo il Programma Nazionale di Ricerca sull’AIDS ProgAIDS, NdA). Eroe vero, era il direttore del laboratorio di microbiologia dell’ISS, assolutamente gay friendly, fu un interlocutore decisivo per noi e aprì la conferenza ringraziando coloro che stavano manifestando in strada. Eravamo lì col nostro materiale autoprodotto, le nostre iniziative. Fu una svolta. E fu seguito moltissimo dalla stampa.
Lì cominciammo a trovare l’idea di fare, come all’estero, la manifestazione del pride tutti gli anni. Ci mettemmo 3 anni.
La discussione è rispetto alla possibilità di fare un pride coinvolge tanto l’Arcigay quanto il Mieli, ma come abbiamo visto la Storia a volte ha bisogno di una spinta esterna, non solo di un desiderio interno, affinché qualcosa si muova. Toccherà quindi aspettare il 2 luglio 1994, in occasione dei 25 anni dai moti di Stonewall, per arrivare alla nascita del primo pride ufficiale in Italia. È un anno particolare, che dobbiamo contestualizzare politicamente per poterne capire l’importanza. In primo luogo, nel Marzo di quell’anno le elezioni vedono il trionfo di Silvio Berlusconi e della sua coalizione, che include la Lega Nord e soprattutto riabilita quel partito che nasce dalle ceneri del Movimento Sociale Italiano, Alleanza Nazionale, riabilitando quei fascisti che erano sempre stati esclusi dall’arco costituzionale. Accade quindi che la manifestazione milanese del 25 aprile di quell’anno indetta dal Manifesto veda una grandissima partecipazione, circa una milione di persone in piazza.
Come ricorda Elena Biagini, militante e autrice di “L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80” (ETS)
C’era un clima plumbeo e spaventoso nel paese. Ci fu un’enorme manifestazione del 25 aprile a Milano e ci fu per la prima volta uno spezzone Lgbt grosso, che bloccò Milano da quanto era grande, fu una specie di prova generale del pride che avvenne 2 mesi dopo.
E se da un lato c’è un rigurgito antifascista che riporta la cittadinanza in piazza, dall’altro c’è l’euforia per la risoluzione di Strasburgo del 8 febbraio, sulla parità dei diritti per gli omosessuali e le lesbiche nella Comunità Europea. Con questa risoluzione, detta Relazione Roth dal nome dell’europarlamentare tedesca Claudia Roth (presidente del Gruppo Verde) il parlamento europeo invitava ai suoi stati membri ad abolire le leggi che criminalizzavano e discriminavano i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso, o che rendevano possibile una disparità di trattamento nei loro confronti. La risoluzione inoltre invitava la commissione a pensare leggi per la tutela delle unioni omosessuali e dei percorsi di genitorialità per coppie dello stesso sesso. Una risoluzione che riempie di euforia il movimento dopo gli anni cupi dell’Aids, che non sono assolutamente finiti. La lotta all’AIDS continua a permeare gli anni ’90 A raccontarci la storia di quella manifestazione è Deborah Di Cave, all’epoca segretaria e presidente del Circolo Mario Mieli di Roma:
La risoluzione di Strasburgo fu un faro nella nebbia e ci diede ottimismo e respiro internazionale. La cavalcammo in occasione del congresso annuale dell’Arcigay (che si tenne all’hotel Beaurivage di Riccione dal 30 aprile al 2 Maggio 1994, NdA) Dalla fondazione dell’Arcigay, il Mieli era di fatto invitato a presenziare alle riunioni (senza diritto di voto) e in quell’occasione ci muovemmo da Roma con la proposta di fare un pride. L’avevamo fatto altre volte ma ricevevamo rifiuti da Arcigay per paura che fosse troppo poco partecipato. Partimmo con Vanni Piccolo e altri con questa proposta che sparigliò le carte di questo congresso. Questa è la mia versione della storia, come per Stonewall ci sono tante versioni.
E infatti quella di Grillini è leggermente diversa:
La proposta di fare pride nazionale è contenuta nel documento preparatorio per il congresso nazionale (al punto 10, pag 6 e pag 11, NdA). Nella mia relazione introduttiva al congresso proposi di fare la manifestazione nazionale. Il problema era dove. I milanesi volevano farla a Milano, chi a Bologna, io proposi Roma, dove c’era il papa, con cui stavamo furiosamente litigando. Al congresso venne anche il Mieli, a sollecitare, ma era una decisione già presa nel documento precongressuale.
La visibilità di gay e lesbiche, come scritto nel titolo del VI congresso di Arcigay, è il tema centrale del congresso. Colpisce che solo il 2% delle persone della comunità all’epoca avesse scelto di fare coming out, il che spiega perché 500 persone fosse considerato un traguardo. Proprio il documento, che menziona anche lo spezzone LGBT della recentissima manifestazione milanese del 25 aprile, lamenta a pag. 4 la scarsa visibilità del movimento: “Non riusciamo ancora a fare grosse manifestazioni pubbliche, spesso si fa fatica a trovare persone che vadano in TV a parlare di se stessi e dell’omosessualità”. Quello che è certo è che non solo il pride si fa, ma che si fa a Roma, e il Mieli, all’epoca associazione di riferimento della Capitale (Arcigay non aveva ancora la sua sede romana) viene incaricato di organizzare l’evento. La soglia del successo, a pensarci oggi, fa tenerezza: 500, 1000 persone.
Di Cave, che ha seguito personalmente l’organizzazione, mi racconta:
Avevamo la certezza che sarebbe stata una débâcle ma nutrivamo ugualmente desiderio di farlo e di avere un’ambizione internazionale, europea, con Claudia Roth. Ricevemmo a quel punto anche grande partecipazione dei Verdi e il supporto del PDS (il Partito Democratico della Sinistra fondato nel 1991 a seguito dello scioglimento del PCI, NdA). Ci mettemmo a lavorare con telefonate e fax per avere quanta più gente possibile, fare pullman per far venire gente e il resto della società civile. Oggi sembra che si debba tenerli fuori, ma quella era la prima volta quindi il nostro obbiettivo era farne venire quanti più possibile. Infatti si vede una quantità incredibile di bandiere di ogni tipo. Il terrore di essere pochi era fortissimo. Andai in questura col Tuttocittà con il piccolo percorso da SS Apostoli a Campo de Fiori. La questura era più stupita di noi, ma nessuno disse no, forse perché avevano il terrore di non essere à la page, e quindi non ci fu nessuna ostativa su orari e luoghi o date. Il pride colse tutti alla sprovvista e anche le istituzioni si dichiararono più disponibili di quanto avrebbero voluto. Anche il fatto che ci fosse la delegazione europea faceva fare la sua figura. La parata fu inaugurata da questo striscione e a tenerlo c’eravamo noi con Claudia Roth. Chiedemmo al sindaco Francesco Rutelli di venire e lui (neoeletto anche grazie al supporto del CC Mario Mieli, NdA) scese dal Campidoglio senza fascia tricolore per salutarci.
Eravamo nel 1994 ma sembravamo dei bambini degli anni ’70. Pensa l’ingenuità: finimmo il pride a Campo de’ fiori, che fino alle 3 del pomeriggio ha un mercato che richiede la pulizia e impedisce di montare il palco, quindi ci fu un ritardo cronico dovuto a questo. Eppure riuscimmo a tirarci sopra a parlare personaggi dello spettacolo. Vladimir Luxuria convinse Gianmarco Tognazzi e Simona Izzo a intervenire, ma pochi all’epoca accettavano di essere associati alla comunità lgbtqia+.
Ci sorprese in positivo la quantità di gente, anche della società civile. Vennero i sindacati (o quantomeno la CGIL), vennero i partiti di sinistra, tanti Verdi e tanto PDS. Eravamo circa 10.000 reali. Un numero che oggi sembra piccolo ma per noi era enorme. La questione per noi era proibitiva: ci sarebbero state le reti TV e quindi sarebbe stato un coming out in diretta. Per noi fu automaticamente una scelta di visibilità. Non c’era possibilità di nascondersi.
Per dirla con le parole di Rosanna Praitano, presidente del Mieli dal 2001 al 2012, che ai tempi del pride del 1994 era arrivata in associazione da una decina di giorni:
È stato un battesimo folgorante di attivismo. Si tratta di un evento che ha cambiato la vita di molte persone, anche quelle che non facevano attivismo. Trovare persone come te che scendono in piazza per una cosa che non li riguarda, con una forza d’orgoglio così potente è stato incredibile.
Anche perché, come spiega Elena Biagini:
Fu una cosa forte, importante, la visibilità in Italia negli anni ’90 fu una cosa grossa. Ero molto emozionata e commossa: la mia generazione -avevo 25 anni all’epoca- non era mai scesa in piazza.
La presenza delle donne sul palco, dopo molti anni di separatismo e soprattutto di invisibilità, è forte: oltre a Deborah Di Cave per il Mieli, sul palco c’era Graziella Bertozzo per Arcigay-Arcigay donna, nata nel 1988, e nel corteo c’è anche uno spezzone separatista. L’eco di quella manifestazione si fa sentire non solo all’interno del movimento, ma anche nella società civile, grazie alla fortissima copertura mediatica. Consapevole dell’oscurantismo che oggi dilaga sui pride, chiedo a Di Cave quanto questa copertura fosse cercata, e la sua risposta mi stupisce:
Non avevamo capacità di ufficio stampa, era tutto super artigianale, eppure la copertura mediatica massiccia fu veicolata dalla novità e dalla curiosità pruriginosa. Non sapevamo chi avrebbe partecipato. C’erano anche le trans col culo di fuori (per fortuna, dico) senza nessun tipo di filtro, o messaggio in codice, come invece è stato fatto successivamente.
Il successo di quel primo pride rende palese la voglia di fare rete, di creare comunità e coesione in tutto il Paese. Di Cave continua:
Quando ci incontrammo con tutte le associazioni alla festa post pride sulla terrazza dell’Alibi (discoteca romana punto di riferimento della comunità, NdA) in molti dicemmo, complice la gioia e il vino: “il pride l’abbiamo fatto, eravamo tanti, che ne dite se creiamo una cosa che ci unisca?” E questo non in visone antagonista ma di ottimizzare un lavoro che era stato fatto. C’era molto poco oltre ad Arcigay: Omphalos Perugia, che esiste tuttora, Il tram dei devianti di Genova Maurice a Torino. Nacque così Azione Omosessuale (Federazione di associazioni LGBT a livello nazionale, NdA), un po’ antagonista e un po’ meno partitica dell’Arcigay. Fu un’esperienza che durò un paio d’anni.
Gli anni successivi vedono il pride spostarsi nel 1995 Bologna, poi nel 1996 Napoli, che sancisce una frattura fra Mieli e Arcigay tanto che nel 1997 ci sono due diversi pride, uno a Venezia e un’altro a Roma, ma la partecipazione si fa inferiore, tanto che nel 1998 non si organizza nulla, mentre nel 1999 la scelta di fare due pride incontra di nuovo una scarsa affluenza. Porpora Marcasciano commenta così:
È iniziata una lotta su chi poteva rivendicare la creazione del pride. I pride iniziano a essere itineranti e questo ha portato a una spaccatura a livelli differenti. Prima si diceva che era romanocentrico, ma in ogni Paese il pride è nella capitale. Un pride a Roma avrebbe fatto arrivare milioni di persone. Alla fine questo ha portato un apparente ampliamento ma nei fatti i cortei non erano significativi. Lo è stato qualcuno, non tutti. Una riflessione andrebbe fatta. Perché per me ogni pride è diverso. Ciò che accomuna tutti è la festa, è il nostro 25 aprile, ma ogni anno il pride è diverso perché nel bene e nel male cambia il mondo. Noi organizzatori e organizzatrici abbiamo l’obbligo di leggere quel mondo e non ripiegarci nelle nostre beghe interne.
A parlarci di lettura del mondo, e di quanto gli eventi abbiano un impatto anche sul movimento è Imma Battaglia, eletta presidente del Mieli nel 1996 e “inventrice” del World pride che ebbe luogo a Roma nel luglio 2000, quando gridò trionfante dal palco: “Siamo un milione!” Ripercorro con lei la lunghissima marcia che portò allo storico evento:
Il 13 gennaio 1998 Alfredo Ormando partì da Palermo per venire a darsi fuoco sul sagrato di San Pietro, cosa che mi sconvolse. Già dl 1997 iniziava il lungo percorso verso il Giubileo del 2000, la politica si era già mossa ed erano forti gli investimenti erano in campo. Anche noi pensammo dobbiamo fare una manifestazione internazionale a Roma, proprio per via del Giubileo. Io odio il vittimismo gay, ma il fatto di Ormando mi aveva fatto proprio incazzare. Pensai: noi dobbiamo essere i veri pellegrini di questo Giubileo. Dobbiamo essere milioni a rivendicare il diritto a esistere, essere riconosciuti e vivere. Ci informammo per capire che sigle ci fossero. In Europa c’era già l’Europride, e l’Arcigay si era mossa per proporre la candidatura di Roma. Poi ci proponiamo anche noi.
Battaglia inizia quindi, in veste di presidente del Mieli, a tessere una fitta rete di rapporti internazionali (scavalcando anche Arcigay, per sua stessa ammissione) per portare l’Europride a Roma, ma non si accontenta: usa le ferie per fare dei viaggi in Europa e negli Stati Uniti per cementare il rapporto con le associazioni statunitensi, tra cui l’Human Rights Watch e l’ILGA, per inserire la città in un percorso di attivismo internazionale. La perorazione della causa del World Pride funziona e la manifestazione viene annunciata nel 1998. Francesco Rutelli, al secondo mandato come sindaco, promette di nuovo accoglienza, come era stato per il 1994, definendo la manifestazione “una formidabile occasione di incontro fra culture e motivazioni spirituali e civili” ma successivamente il sindaco − nel frattempo nominato commissario straordinario per il Giubileo − si tira indietro.
L’aria politica è cambiata. Il Governo D’Alema, che aveva supportato la causa, cade nell’aprile 2000 e viene sostituito da quello di Giuliano Amato, fino a quel momento chiamato da Eugenio Scalfari “Dottor Sottile”. Viene ribattezzato da Repubblica il “Dottor Purtroppo” dopo che nel rispondere a un’ interrogazione di Alleanza Nazionale sul World Pride, ha ricordato che esiste l’ articolo 17 della Costituzione che garantisce il diritto di manifestazioni pacifiche. Ma che considera “inopportuna” la parata gay nell’ anno del Giubileo, e soprattutto che “Purtroppo dobbiamo adattarci a una situazione nella quale vi è una Costituzione che ci impone vincoli e costituisce diritti”.
Da quel purtroppo non si torna indietro.
La Chiesa cattolica teme ormai contestazioni a San Pietro, fra pressioni al ministro dell’Interno Bianco a spostare l’evento l’anno seguente e e invita, tramite il cardinal Ruini a parroci e congregazioni di suore, a votare per il candidato di AN Francesco Storace alle imminenti elezioni per la Regione Lazio. La questione ormai è di rilevanza nazionale. Come ricorda Elena Biagini:
Non lo era mai stato, mai. Nei 30 anni precedenti di movimento MAI avevamo avuto la 1 pagina, la avemmo per 6 mesi da gennaio a giugno. A mio parere fu un evento che cambiò la percezione che le persone comuni hanno su gay e lesbiche. E il 2000 fu il momento in cui si vide affermarsi questo cambiamento. Fu un passaggio molto forte. Il world pride per noi era contro l’ingerenza della chiesa nella politica italiana, e infatti i nostri striscioni (del gruppo fiorentino, NdA) erano tutti contro la chiesa.
Battaglia ricorda quei mesi con un comprensibile pathos:
Ci tagliarono i fondi che i partiti e il comune aveva destinato, Rutelli ritirò patrocinio, non ci davano permessi per il villaggio fino a una settimana prima, non ci davano le autorizzazioni per il percorso comunicato anni prima. Abbiamo lavorato come con Act Up. Inseguivamo Rutelli ovunque, “Il gay pride-si-deve-far” facemmo un casino infernale e alla fine avevamo quasi 300 volontari. E molti arrivarono dagli USA.
La manifestazione di quell’anno è una vera e propria kermesse di otto giorni, dal 1 all’8 luglio, giorno della parata LGBT+ (e finalmente si inizia ad usare questa sigla più inclusiva, invece di gay e basta). Al corteo non partecipa solo la comunità, ma anche cittadine e cittadini eterosessuali.
Non ci aspettavamo la folla, invece il giorno dell’inaugurazione ci fu una folla pazzesca. Non si può raccontare la gioia di sentire gente da tutto il mondo. Era stupendo, emozionante, una cosa incredibile. Ho ancora la pelle d’oca a pensarci. L’8 luglio il raduno era previsto per le 17, io nel primo pomeriggio passai da lì in scooter per vivere l’emozione da sola, ed era già tutto pieno da stazione Ostiense fino a su dove c’erano i carri, era pieno tutto viale Aventino. Dovemmo partire in anticipo perché c’era troppa gente e non riuscivamo a camminare. L’unica cosa che sapevo è che avevamo vinto noi, e che Alfredo Ormando aveva avuto la gusta rivendicazione.
Nel 2005 il Pride nazionale si tiene a Milano ed è il primo che vede la partecipazione di Famiglie Arcobaleno. L’associazione è nata nel marzo dello stesso anno proprio a Milano in seno a Lista Lesbica Italiana, un punto di incontro online per donne che iniziano a scambiarsi informazioni su inseminazione artificiale e coparenting. L’anno prima è stata approvata la legge 40, quella che impedisce nel nostro paese forme di fecondazione eterologa (inclusa la GPA, con buona pace di chi oggi continua a chiederne la messa al bando. È già avvenuta 20 anni fa.) e che costringe quindi le donne che vogliano diventare madri da sole o con una compagna a rivolgersi all’estero.
Al pride di quell’anno partecipa uno spezzone che include una ventina di bambini con le loro mamme. La provincia di Milano mette a disposizione un trenino affinché FA possa aprire il pride. La manifestazione segna un punto di svolta all’interno del movimento: le rivendicazioni per i diritti civili non si fermano più al singolo individuo, ma anche alle famiglie che vogliono -e possono, seppure fra mille difficoltà− creare. Come ci racconta Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno:
Ci furono attacchi pazzeschi perché le famiglie omogenitoriali portavano i figli al pride e si accostava ancora l’omosessualità alla pedofilia. Ebbero un coraggio pazzesco. La forza di Famiglie Arcobaleno è stata questa, capire che la visibilità era un’arma potentissima, che poteva costarti qualcosa, ma era fortissima e infatti l’associazione ha fatto proprio della visibilità il suo fiore all’occhiello.
Il coraggio di quelle donne è davvero encomiabile, perché dalla politica (in quel momento al governo Berlusconi III) arrivano critiche di una ferocia insostenibile. Calderoli, all’epoca ministro delle riforme parla di “la schifezza di utilizzare dei bimbi innocenti per sostenere le proprie perversioni” e di “corteo di bimbi che grida vendetta a Dio” preoccupatissimo tuona: “a breve, avremo anche a casa nostra figli di coppie lesbiche o bimbi adottati da coppie di finocchi.” È un pride incentrato sul riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali, tanto che lo slogan è “PACS! Patti chiari, amicizia lunga…”.
Negli anni il tema della famiglia e delle sue configurazioni prende peso nella conversazione dentro e fuori il movimento, tanto da infuocare il pride nazionale del 2007, di nuovo a Roma, che inizia con l’incontro sulla Famiglia Fantasma, ossia sulle famiglie di lesbiche e gay che per lo stato italiano non esistono. Il pride del 2007 infatti nasce in risposta al Family Day del 12 maggio, a cui aveva partecipato addirittura una parte del PD e l’attuale ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità Eugenia Roccella, recentemente attaccata al Salone del Libro di Torino per le sue posizioni antiabortiste e anti GPA. Già in campagna elettorale il Governo Prodi II, eletto l’anno precedente, aveva dovuto fare i conti con una parte della sinistra che chiedeva a gran voce forme di tutela per le coppie di fatto e quelle omosessuali. Il disegno di legge sui Di.Co. (DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi) è stato avanzato appena qualche mese prima, nel febbraio 2007 e la discussione è infervorata, tanto che la partecipazione al pride, ormai trasformato in una manifestazione a favore delle unioni fra persone dello stesso sesso, arriva a contare un milione di persone. Come racconta Rossana Praitano:
Quello del Family Day fu un tentativo di tornare indietro rispetto ai diritti. Andammo a San Giovanni come avevano fatto quelli del Family Day e riempimmo quella piazza ben più di loro. Stoppammo quel tentativo pseudo di piazza che volevano creare con una presenza politica di piazza compatta. Il Family Day morì lì ma i suoi protagonisti sono ancora ben presenti nel panorama politico italiano.
Il tema del pride, più che la famiglia, è ancora una volta “Il riconoscimento della laicità dello Stato quale valore portante della nostra Repubblica e della nostra Costituzione”, che nel nostro Paese sembra essere costantemente in pericolo. E se la compattezza di quella piazza riesce a cancellare per un momento le differenti istanze di quelli che ormai bisogna chiamare movimenti, al plurale, vale la pena di soffermarsi su quello che succede a cavallo degli anni dieci del 2000, perché coincide con una stagione politica del movimento che alla contrapposizione Mieli/ Arcigay vede aggiungersi un terzo polo quello antagonista proveniente da alcune frange del movimento studentesco, come ci racconta Filippo Riniolo:
Il movimento Lgbt fra il 2008, inizio dell’Onda (2010) e 2012-2013 ha vissuto a Roma nello specifico, poi in tutta Italia, una fase particolare. Si trattava di un’area molto vasta, a sinistra del Mieli, e in contrapposizione con Arcigay: la parte queer del movimento LGBTQIA+. Da qui nascono realtà come Queer Lab, che in sostanza diceva: “Attenzione che i diritti sono il cul de sac del movimento, le donne hanno formalmente gli stessi diritti degli uomini ma comunque non hanno gli stessi diritti degli uomini, non facciamo lo stesso errore: le leggi non sono lo strumento per costruire l’uguaglianza né la soluzione. Il piano culturale è necessario più di quello normativo. Questa area politica di riferimento dopo il decennio dei diritti torna a chiedere la libertà, e non solo l’uguaglianza.
Cinque anni dopo il 2007 Roma torna protagonista con un evento che ha segnato l’immaginario di tante persone, l’Europride del 2011, che viene ricordato come “Il pride di Lady Gaga”. Ce lo racconta Rosanna Praitano, che in qualità di presidente del Mario Mieli e del coordinamento (insieme a Paolo Patanè di Arcigay e Porpora Marcasciano del MIT) ha gestito la sua organizzazione
Nel 2011 era sindaco Alemanno. Fu difficile incontrarlo per parlargli dell’organizzazione (forse perché gli era stato spiegato che il Mieli non era tenero). Lo incontrai e gli feci un discorso semplice: “io devo fare con lei una cosa che lei non condivide e lei deve fare una cosa con me di cui non condivide i contenuti, ma la dovemo fa (in romanesco, NdA) perché lei è il sindaco di Roma e perché questo è un evento importante per la città e per la nazione che dobbiamo e vogliamo fare. Dobbiamo trovare a questo punto le soluzioni organizzative migliori” Mi ascoltò e fu collaborativo. Disse che non sarebbe venuto e gli dissi:” lei non deve venire, ma deve consentire che venga fatto.” E lo fece. Fu intelligente e diede il supporto che doveva dare un sindaco.
Resto stupita dalla facilità con cui Gianni Alemanno, sindaco proveniente dal MSI (tanto da aver sposato la figlia del suo fondatore) acconsenta con tanta leggerezza ad un evento di tale portata. Praitano mi spiega:
Fu il pride di due anni prima che era stato difficile. Alemanno era appena eletto e forse non aveva elaborato questa dimensione per cui i pride nelle città si fanno e non si ostacolano. Invece nel 2011 vuoi perché era un Europride, vuoi perché c’era Lady Gaga, diventò un grande evento, e quello cambiò la dimensione organizzativa.
La storia dei sindaci romani con la manifestazione è fatta di rovesciamenti: se il radicale Rutelli si tirò indietro sul World Pride, l’ex picchiatore Alemanno oltre a garantire lo svolgimento dell’Europride, si porta dietro anche la neopresidente della Regione Renata Polverini (PdL) che viene fischiata, e si presenta al Gay Village di quell’anno a sostegno della comunità.
Il fatto che ci sia una popstar di fama mondiale in effetti costringe l’amministrazione a gestire un evento che rischia di paralizzare la città. Praitano ci racconta che cosa comportò, materialmente, la presenza della cantante:
Gaga confermò la presenza appena dieci giorni prima e quello scombinò tutta l’organizzazione. Un grande evento cambia completamente la scala organizzativa. Ci sono i capi di tutti i dipartimenti, si aprì un mondo nuovo perché cambieranno i numeri non della parata, ma del suo arrivo, in maniera completamente differente. Il Circo Massimo quando arrivammo era quasi vuoto perché, come dissi scherzando al questore, quasi tutti i fan di Gaga sono gay. E anche quelli che non lo sono la parata non se la perderebbero, perché in quanto fan di Gaga sono “friendly”.
Il fatto che l’Europride sia ricordato come “il pride di Lady Gaga” è un cruccio per la parte più strettamente politica del movimento. Arriva la destra, arrivano le aziende a pagare i carri, si comincia a parlare di omonazonalismo e di pink washing, insomma il pride comincia ad attirare alleanze sospette, che vengono percepite come corpi estranei dalla militanza più ortodossa. Come commenta Elena Biagini, che rappresenta un’altra anima della comunità, più antagonista, quella del coordinamento Facciamo Breccia (2005-2011), un movimento antirazzista che si poneva agli interstizi fra movimento Lgbt, quello femminista e i centri sociali, nato per contrastare l’ingerenza vaticana in politica (in quel momento rappresentata da papa Ratzinger, neoeletto, e da quel cardinal Ruini che tanto aveva osteggiato il World Pride nel 2000):
Quello fu il pride di Lady Gaga purtroppo. Dico purtroppo perché ci si ricorda solo quello. Nulla contro di lei né contro un concerto gratuito ma la presenza del consolato americano francamente l’ho trovata un po’ invasiva. Per l’Europride facemmo un’assemblea San Lorenzo (quartiere studentesco di Roma, NdA) “Fuori e dentro le democrazie sessuali” che portò in Italia le tematiche, fino a quel momento assenti, dell’omonazionalismo e del pink washing. Portammo Jasbir Puar e tanti altri ricercatori e ricercatrici. Partecipammo al pride con 3 furgoni piccoli “La nostra identità non è nazionale” sempre riportando le tematiche nostre.
I tempi sono maturi perché il movimento lgbtqia+, la cui presenza in Italia è ormai consolidata, includa nell’organizzazione anche associazioni non romane, che oramai si sono comunque moltiplicate, come abbiamo visto, grazie al fiorire dei collettivi universitari e non, e che oltre all’esibizione di Lady Gaga ci sia un pride park di dieci giorni a Piazza Vittorio, cuore pulsante del multietnico quartiere romano dell’Esquilino. Proprio quel pride park raccoglie tutte le associazioni nazionali, fungendo da catalizzatore di quell’energia che da lì a due anni porterà alla nascita di Onda pride. L’Europride, ricorda Praitano, infatti è l’ultima grande manifestazione nazionale:
Trovo questa cosa molto giusta perché porta il pride in tutta Italia, ma c’è ancora bisogno di un pride unitario. Secondo me una cosa non esclude l’altra, sarebbe una cosa di compattezza politica importante. Ci sono dei pride in Italia che hanno rilevanza maggiore, banalmente numerica, ad esempio quello di Roma è il più affollato perché è la capitale, così come sono grandi quelli di Torino e Milano o Bologna. Però un momento collettivo.
La crescente trasversalità del pride, che come abbiamo visto è uscito indenne da governi di ogni colore, ha fatto sì che negli ultimi anni crescesse al suo interno la presenza dei carri sponsorizzati dalle aziende. Un tema divisivo che negli ultimi anni ha acceso il dibattito fra i movimenti. Ne chiedo conto a Praitano, che nel corso dell’Europride ha visto sfilare il maggior numero di carri che la manifestazione abbia mai visto:
Al di là dei soldi, c’è una valenza politica. Se lo sponsor ha una valenza politica e si spende, ha un peso all’interno del Paese. Che una banca o un’assicurazione o l’acqua minerale oggi abbiano un gruppo di diversity interno è un fatto che era impensabile prima. Se hanno iniziative interne a supporto dei dipendenti, aiutano la causa all’interno della società tutta, avvicinando persone che altrimenti non la coglierebbero. Se lavori di concerto con le aziende, mantenendo l’indipendenza, trovi la quadra ideale, e penso che al pride del 2011 l’abbiamo fatto. E credo che la maggior parte de pride da allora riescano a mantenere questo equilibrio. Bisogna stare attenti nella scelta, senza farti strumentalizzare. Dagli sponsor come dalla politica, non c’è differenza. Anzi, la politica tende a strumentalizzare anche più degli sponsor.
Di tutt’altro avviso è Porpora Marcasciano:
I carri non mi piacciono per niente. Li abolirei da subito sia per una questione ecologica che di spazio urbano e pubblico. È bello vedere la gente e fare si che si incontrino i corpi. Lo sponsor serve a finanziare un pride. Nel 2011 abbiamo dovuto pagare tutto ciò che attorno a Gaga girava, anche perché nel giro di dieci giorni la cosa si è stravolta. Ma quello è un caso particolare. Se un pride è sentito, come ad esempio 25 aprile o 1 maggio, basterebbe fare una chiamata. Il 25 aprile non ha carri! Il pride lo puoi fare praticamente gratis, basta fare una colletta. Quando però miri in alto, ci sono cose che ti fagocitano. Invece il pride dovrebbe essere una cosa libera. La gente lo sente, va in piazza da sola senza milioni per il palco, i concerti, ecc. credo che tutte le persone LGBTQIA+ dovrebbero sentirlo. E io credo lo sentano.
Grillini invece è d’accordo sulla presenza dei carri, ma per un altro motivo:
Sono favorevolissimo ai carri. Il pride è una manifestazione creativa e divertente, non è un funerale. il carro è il suo elemento trainante perché è l’elemento che caratterizza questa creatività. E consente a ogni gruppo di esprimere la propria individualità anche culturale e politica. È il centro del contributo che ciascuno può dare. Il pride rimane una manifestazione politica e all’epoca del governo delle destre lo è ancora di più.
Dal 2013 ad oggi, a livello politico, sembra non muoversi un granché. L’approvazione delle unioni civili nel 2016, che è sicuramente un traguardo storico, ha lasciato l’amaro in bocca a buona parte della comunità, in particolar modo a Famiglie Arcobaleno. Tanto che il pride di quell’anno si intitola, ottimisticamente, “Chi non si accontenta, lotta!”. Da qui la scelta, nel 2018, di chiamare i partigiani come testimonial, e di usare come slogan del Roma Pride “La Liberazione continua”. Alessia Crocini, che oltre a essere presidente di Famiglie Arcobaleno è pubblicitaria e ha lavorato alla campagna, ci racconta la scelta:
Si sapeva che Salvini avrebbe vinto le elezioni e ci dicemmo: siamo anche noi − con tutte le differenze e misure − partigiani, in più il Mieli faceva da anni un percorso con ANPI. Andai con Sebastiano Secci (avvocato e attivista del Mieli, NdA) a incontrare Tina Costa, al Laurentino, novantadue anni e un’ enorme lucidità politica. Fu super emozionante. Non aveva nessun pregiudizio ma voleva sapere bene di cosa si trattava, facemmo una campagna fotografica con lei e un altro partigiano, Modesto Di Veglia, in cui i partigiani erano mescolati con membri della comunità. Abbiamo imparato tanto da lei e le persone LGBT+ giovani hanno imparato molto sulla resistenza e sui partigiani.
Quest’anno si celebreranno 10 anni di Onda Pride con eventi previsti in 50 città italiane. Ma gli eventi saranno ancora di più: la nostra comunità è laboratorio politico di idee e chi scrive è ben felice di poter parlare di movimenti, al plurale, perché un dibattito acceso è il segnale di un forza vitale, e solo chi vive può combattere. A marzo 2023 infatti è stato annunciato su Instagram sul profilo di @priotpride (Pride Romano Indecoroso Oltretutto) il progetto di una soggettività transfemminista queer cittadina che, si legge sul primo post, condivide valori quali “l’antifascismo, la critica sistemica al capitalismo, il rifiuto di pratiche omonazionaliste e di rainbow washing, la costruzione di percorsi di autodeterminazione orizzontali e partecipativi, un posizionamento critico rispetto alle istituzioni e ai tentativi di appropriazione delle nostre rivendicazioni.” Un percorso senza sponsor, organizzato dal basso, per ripartire da quel sentimento di pancia che aveva animato i primissimi collettivi degli anni settanta: “Sogniamo e vorremmo costruire un Pride radicale, conflittuale, intersezionale e libero dal peso consumista di un capitalismo che traduce la nostra lotta in marketing e in opportunità per sfruttare ancora di più la terra, le persone e i corpi tutti. Sogniamo e vorremmo costruire un orizzonte di lotta comune che vada ben oltre il Pride, oltre giugno, perché c’è bisogno di costruire resistenze in ogni mese dell’anno.”
Che una critica a certe modalità del pride provenga dall’interno della comunità è un segnale positivo: perché vuol dire che a essere messa in discussione non è più l’opportunità di farlo o meno, o il timore che ci possa essere poca partecipazione, com’era agli albori. Il fatto che sia in corso un dibattito sulle modalità di lotta politica è il segnale che stiamo entrando in una fase di maturità del movimento, di vivacità intellettuale che spinge ad un confronto, anche intenso, su ciò che significa oggi dirsi e vivere da persona queer in un mondo eterocisnormato. Il conflitto è la base della narrazione, e finché c’è vuol dire che questo movimento, ormai grande grosso e poliforme, ha ancora qualcosa da dire. Speriamo che questo non voglia dire parlarsi addosso ma parlare al mondo, là FUORI. Dove, finalmente, ci siamo anche noi.