Finalmente, dopo decenni, puoi dire “Sei libero”. Ma libero di cosa? Le cicatrici rimangono aperte e non potranno mai più rimarginarsi perché avrai sempre gli occhi su di loro. Specialmente se senti che queste non te le sei procurate volontariamente ma sono stati altri ad infliggertele.
Ero entrato nella città dolente nel caldo luglio del 2001 e ne sono uscito in una giornata di pioggia di fine agosto 2023. Ventidue anni passati in carcere, in Italia e fuori.
La mia sensazione, una volta libero, è stata di rinascere una seconda volta, tornare in un mondo che non riconoscevo. Non era il mondo che avevo lasciato. La tecnologia era progredita troppo velocemente: conoscevo i telefonini in bianco e nero, con i quali si poteva semplicemente telefonare e, quando sono uscito, mi hanno messo in mano uno smartphone col quale si può fare di tutto, da mandare vocali, a navigare su internet (per me sconosciuto…), ad acquistare merci di tutti i tipi. Neanche le monete erano più le stesse. Avevo sentito parlare da dentro che si era passati dalla lira all’euro ma non ne avevo visto neanche uno. Ho dovuto reimparare a contare i soldi, come si fa da piccoli.
Dopo qualche mese di libertà, ho sentito il bisogno di tornare nella mia Palermo. Lì ho avuto l’impressione di non riconoscere neanche i visi delle persone amiche: bambini che avevo lasciato in fasce ritrovati adulti e tanta, tanta gente anziana che oggi non c’è più.
Uscire da un carcere dopo tanti anni può essere molto duro, anche devastante. Non si tratta solo del mondo che ti è cambiato intorno ma anche del ruolo che tu hai dentro ad esso. Per la società un ex carcerato è e sarà sempre un colpevole da emarginare, dal quale tenersi lontano. Nel mio caso, devo ammetterlo, non è andata sempre così. Ora che sono fuori, spesso racconto la mia storia a chi conosco e molte volte (ma non sempre) trovo dall’altra parte persone disposte ad ascoltarmi e quasi sorprese quando gli dico che ho passato tutti quegli anni in carcere. “Non sembri un carcerato”, mi dicono.
Ma com’è un carcerato? “È una persona normale che ha vissuto con molte privazioni”, rispondo io. “Un uomo che ha imparato a fare a meno di un gelato quando ha voglia di mangiarlo, a sopportare il mal di testa finché non gli viene concesso un farmaco (e possono passare giorni), ad adeguarsi a sentire sempre gli stessi rumori e a vivere la sua routine senza sorprese”.
Eppure, alle volte, le sorprese possono esserci.
Un giorno stavo studiando nella biblioteca del carcere (mi ero iscritto all’Università per laurearmi in Lettere e Filosofia) ed è entrata una signora che ha esclamato “Oh, quanti libri! Questo è il mio mondo!”. La guardai sorpreso e pensai “Eccone un’altra”. Credevo fosse una delle tante persone che entrano in carcere con tante buone intenzioni ma poi non stringono niente.
Non era così.
Un mese dopo venni convocato nell’ufficio dell’Ispettrice capo del mio Reparto. Quella signora era Flavia Filippi e stava cercando persone da far assumere in un ristorante. Ma chi avrebbe dato un lavoro a un pregiudicato con tanti anni di galera alle spalle, pensai. “Seconda chance”, mi disse lei.
Grazie a Seconda Chance – l’associazione fondata da Flavia Filippi e che, sfruttando la legge Smuraglia (ossia la concessione di una serie di sgravi fiscali riservati agli imprenditori che assumono detenuti), permette a tanti reclusi di trovare un impiego – un lavoro l’ho trovato anche io.
Ed è stato così per 19 mesi ho lavorato in un ristorante con un contratto regolare e sono stato trattato come una persona qualsiasi, con uno stipendio adeguato e tutti i relativi diritti. Cosa non scontata, dato che, molte volte, il lavoro dei detenuti viene sfruttato o sottopagato.
Oggi, che sono un uomo libero, ho messo a frutto l’esperienza maturata grazie a Seconda Chance, iniziando un nuovo percorso lavorativo nella ristorazione ma con un posto tutto mio. Una scommessa che oggi sento di poter fare, per ricominciare, finalmente la mia seconda vita.
La frase che mi risuonava in testa per tutti questi anni era “Calati junco ca’ passa la china”, ossia “Abbassati canna ché passa la piena”. Oggi sento che la piena è quasi passata ed io, finalmente, mi posso rialzare.
[Foto di Tangerine Newt]