Dice una vecchia barzelletta che una lesbica, al secondo appuntamento, porta il camion dei traslochi. La battuta andrebbe aggiornata ai tempi che corrono, in cui le lesbiche dopo sei mesi tirano fuori l’anello di fidanzamento e propongono direttamente il matrimonio (been there, done that) tanto che io, scherzando, caldeggio il DDL Sfregola, ovvero il divieto assoluto, per le coppie di donne, di regalare il brillocco prima che siano passati almeno tre anni dal primo appuntamento. Questo perché la prescia di sposarci ancora c’è, quella di divorziare pure (been there, done that), magari per buttarsi a pesce in un altro matrimonio. Quello che manca, a ben vedere, è il matrimonio stesso. Perché quella che noi possiamo contrarre è un’unione civile, non un matrimonio, anche se facciamo finta di non vederlo (been there, done that).
Sono passati 8 anni dall’approvazione delle unioni civili e si sta avverando la profezia paventata da Famiglie Arcobaleno all’epoca, e cioè che questa legge “contentino”, incompleta a causa dello stralcio della stepchild adoption, non sarebbe stata toccata per 10 anni. Se mai fosse stata ritoccata.
La legge in effetti è rimasta tale e quale, eppure in questa assurda realtà distopica che ci ritroviamo a vivere dovremmo quasi esultare, visto il governo che ci ritroviamo. Ricordiamo che Giorgia Meloni, in campagna elettorale nel 2022, ha urlato a un contestatore dal palco “Hai già le unioni civili”, perché la preoccupazione che volesse abrogarle era concreta. Come per la 194 (anche quella ha promesso di non toccare, Giorgia Meloni), la legge sulle unioni civili non è stata toccata, ma la vita di chi ne usufruisce non è stata certo resa più semplice, anzi: la procura di Padova nel giugno 2023 ha chiesto la cancellazione di una delle due mamme dai certificati di nascita di 37 minori figli di coppie lesbiche. Un attacco particolarmente rumoroso che ha offuscato quello che, in maniera più silenziosa, ha cominciato ad avvenire in tutte le città italiane: nonostante le buone intenzioni, anche i sindaci più progressisti come Gualtieri e Sala hanno dovuto arrendersi alla forza bruta del Ministero dell’Interno che per il tramite delle procure sta chiedendo l’annullamento delle trascrizioni degli atti di nascita. Unica eccezione: il feudo queer di Bologna.
Un attacco alle famiglie omoparentali, lasciate sole dalle istituzioni e dal movimento stesso. Il quale, oggi, al matrimonio sembra non pensarci più di tanto. Il matrimonio egualitario è il primo punto del manifesto politico del Roma Pride, ma nel documento del Milano Pride il diritto di essere famiglie è il penultimo punto, e la parola “matrimonio” non viene menzionata. Nel documento del Rivolta Pride di Bologna 2023 la famiglia è al primo punto, in quello di Torino arriva dopo suicidio assistito, ius soli e grassofobia. Nel Liguria Pride non c’è proprio.
Per chi, come chi scrive, ha vissuto l’intensità del movimento che quasi 10 anni fa ha portato alle unioni civili, è evidente che l’interesse nei confronti del tema è diminuito. Ma perché? Provo a formulare delle ipotesi inseguendo la storia.
Di matrimonio, nel movimento, se ne parla già dagli anni ’80, quando passata la brama di liberazione sessuale degli anni ’70 gli animi si placano, ma con l’arrivo dell’HIV le priorità cambiano e per qualche anno non se ne parla più, finché negli anni ’90 l’enorme stigmatizzazione dà una spallata fortissima al desiderio di normalizzazione, e lo abbiamo visto nel cambiamento dell’estetica dei corpi gay: è proprio in questo periodo che fra i sopravvissuti inizia a diffondersi la cultura delle palestre, per dimostrare di essere in salute e quindi sessualmente disponibili (e sicuri). Il desiderio di normalizzazione, o meglio di perfezione, non riguarda solo i corpi, ma la vita in generale. Negli anni ’90 si inizia a diffondere la rappresentazione dei gay nei media, nelle piazze, e di pari passo il movimento LGBTQIA+ inizia a chiedere il riconoscimento delle coppie omosessuali attraverso l’introduzione dei PACS (Patti Civili di Solidarietà), sul modello francese. Alcune frange, va detto, già all’epoca sono contrarie alla politica dei diritti. Se il movimento era pronto però non lo era il governo Berlusconi, e men che mai la chiesa. Per una decina d’anni vengono presentate da sinistra una serie di proposte di legge per le unioni civili (ci prova persino Alessandra Mussolini, nel 2003) finché nel 2006 ci ritenta il governo Prodi con i DiCo (Diritti e doveri delle Coppie Conviventi): li ha promessi -fatto storico- in campagna elettorale ma ha fatto il mega errore di allearsi con una serie di partiti democristiani che, per quanto di sinistra, rimangono cattolici e non hanno nessuna intenzione di approvare la legge.
Il movimento intanto cresce, guarda con gli occhi a cuoricino all’Europa e agli Stati Uniti, che nel 2015, sul finire dell’epoca d’oro di Barak Obama, riconoscono il matrimonio egualitario. Nel frattempo sono arrivati gli anni ’10, il femminismo è di nuovo cool, pop, social, si è fatto intersezionale. In tutto questo le lesbiche trovano di nuovo delle alleate nel movimento femminista, escono allo scoperto e iniziano a riprodursi più di quanto non facessero prima, ma si ritrovano con figli senza diritti. Per la prima volta non si chiedono le unioni civili ma si parla di matrimonio egualitario. Piovono hashtag come #lostessosi e #loveislove che all’epoca, lo ricordiamo, serviva a far passare il concetto di uguaglianza. Grazie alla vicinanza col femminismo di quarta ondata arrivano delle alleate forti e cariche che fanno da megafono alle istanze della comunità.
È in questo brodo di coltura che arriva l’approvazione del DDL Cirinnà (essa stessa, per l’appunto, un’alleata), la cui lezione più grande è che bisogna chiedere molto di più di ciò che si è disposti ad accettare. E non cedere quando si tratta di diritti: ci ritroviamo da allora con le unioni civili, termine sterile per un legame sterile, che non tutela in alcun modo la prole che la coppia unita civilmente ha già o vorrà generare.
A mettere una toppa ci pensa la Cassazione, sempre nel 2016, attraverso un parere positivo. L’Italia è fatta così, una scappatoia per aggirare la legge non la risparmia a nessuno, finché nel 2023 il Ministero dell’Interno non si mette a giocare al gatto col topo. La legge, abbiamo capito, ci serve: fare causa è penoso, stancante, anche caro, così come andare all’estero (dimenticavo: prima di adottarli i figli bisogna farli, e nel Paese di Pulcinella non si può, tocca andare all’estero).
Ma perché in 8 anni non c’è stato nessun avanzamento sul fronte diritti? Qualcuno dirà che non c’è stato il governo a favore, ma non è solo questo il punto, qualche timida proposta c’è stata, ma non ha avuto nessuna risonanza neanche nella bolla: abbiamo sentito parlare di DDL Zan, ma non di queste proposte. Abbiamo invece sentito parlare di “Famiglia queer” da Michela Murgia (anche lei un’alleata che ha fatto da cassa di risonanza per la comunità).
Sarei più propensa a pensare che manca ormai un’unica volontà politica da parte del movimento, che nel frattempo non è più uno solo ma un insieme di movimenti ispirati da varie istanze, il che succede quando si cresce numericamente eh, non voglio dire che sia un male sotto ogni punto di vista. Ma è un movimento ormai polimorfo, complessissimo, è diventato transfemminista queer e si è progressivamente allontanato dal desiderio di normalizzazione. Ormai esiste la PeP, la PrEp, il virus dell’HIV, per fortuna, non fa più paura. Undetectable = Untrasmittable, evviva. La sieropositività sarà ancora uno stigma per gli etero, ma nei movimenti no. La reazione alla marginalizzazione e allo stigma, ovvero la necessità di doversi far accettare in quanto bravi, belli, educati e di buon gusto non c’è più. La GPA ha costi proibitivi (oltre a essere osteggiata da destra e da una parte del movimento femminista) e soprattutto, diciamoci la verità, sono molto poche le coppie di uomini che davvero prendono in considerazione l’idea di diventare padri. Se fanno meno figli gli eterosessuali, perché ci dovremmo pensare noi a farli considerando che ci costa pure di più e lo Stato ci osteggia in ogni modo? La genitorialità inizia a venire considerata, da qualcuno, un fatto borghese, eppure fra le madri lesbiche che conosco più di una è precaria, artista, orfana.
I tavoli di lavoro di Non una di Meno (movimento transfemminista nato appunto nel 2016) sono scuola e formazione, lavoro welfare e reddito di autodeterminazione, ecologia politica, salute e aborto, guerra, razzismo e confini, violenza e fuoriuscita. Genitorialità: non pervenuta.
Fra i movimenti più espressamente LGBTQIA+ non va meglio: sono andata alla festa delle famiglie organizzata da Famiglie Arcobaleno lo scorso anno e nonostante la loro allegria, la loro energia e le loro magliette fuxia, ho avuto la sensazione che fossero state lasciate da sole da un movimento concentrato su altre tematiche (identità, salute, discriminazione). D’altra parte, come mi dice Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno, “I genitori sono una parte esigua del totale delle coppie e le unioni civili risolvono i problemi della maggior parte di LGBTQIA+. Eppure la proposta scritta nel 2023 da FA con Rete Lenford sul riconoscimento delle famiglie omogenitoriali è un evento storico: Azione Verdi e Sinistra ha depositato la proposta di legge il primo giorno di legislatura. E che anche il PD ha depositato la legge con moltissime firme”.
Da tutt’altra parte il PRIOT (Il Pride Roman Indecoroso Oltre Tutto) di ispirazione anarchica. Nel manifesto politico del 2023 sostiene che i diritti civili come DLL Zan e Cirinnà vengono utilizzati come merce di scambio all’interno di trattative istituzionali e chiede (cito): “A che ci serve un’unione civile se non abbiamo una casa in cui vivere? A che ci serve poter assistere lə nostrə partner se non abbiamo la garanzia di una sanità universale e gratuita?”.
Le domande sollevate dal PRIOT sono sacrosante e di tragica attualità non solo per le persone queer ma per chiunque, anche se personalmente ritengo che senza dialogo con le istituzioni non si va da nessuna parte, visto che invece i Pro Vita ci vanno a braccetto, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Forse il punto è che oramai, come comunità, siamo un superorganismo fatto di identità multiple (rubo la definizione a Industria Indipendente), in cui anche le frange più estreme sono importanti perché esprimono (come sostiene un giornale cattolico che ha ripreso il manifesto del PRIOT) “la propria frustrazione esistenziale”. Frustrazione che funge anche da carburante per il laboratorio politico che secondo me la comunità dovrebbe essere.
In quanto superorganismo dovremmo − proprio per la cura che dobbiamo riservare alle identità multiple che ci compongono − più che superare, espandere il concetto di famiglia, come propongono gli Stati Genderali. Nati in concomitanza del DDL Zan gli SG scrivono, nel loro “Report Genitorialità, diritti delle s_famiglie e giustizia riproduttiva”, che vogliono il matrimonio egualitario, l’adozione (non solo del figlio biologico del partner), la GPA, e la tutela di altre forme relazionali, proponendo insomma una riforma più ampia del diritto di famiglia, che includa e tuteli, oltre ai modelli più tradizionali (come ad esempio le coppie omosessuali con figli), anche quelli nuovi, come le famiglie poliamorose a l’allargamento dell’istituto di convivenza.
Una battaglia che, a dirla tutta, sarebbe bene includesse anche gli etero, visto che li riguarda. La politica è fatta di conflitti e di alleanze, che in questo caso, proprio per evitare strumentalizzazioni istituzionali, dovrebbero nascere dal basso e portare la forza viva, travolgente e favolosa del laboratorio politico di amore e rabbia che sappiamo essere.