Andrea Pini è una pietra preziosa. Di quelle che quando si ha la fortuna di trovare, vanno custodite e valorizzate. Tra i fondatori del Circolo Mario Mieli, ne è stato il presidente dal 1990 al 1993. E’ autore, tra gli altri, di “Omocidi. Gli omosessuali uccisi in Italia” e “Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia di una volta”. Parlare con lui è come sfogliare un libro di storia, scritto da uno studioso scrupoloso e dettagliato, narrato da un uomo che ha vissuto da attivista 40 anni di storia del movimento gay, con una memoria enciclopedica e l’aspetto di un quarantenne. Tutte le nostre origini sono raccontate da lui in maniera lucida, garbata e sincera in questa intervista nella quale ci fa rivivere il contesto storico, politico e culturale nei quali si inserisce la nascita del Circolo Mario Mieli. Preparatevi a una lectio magistralis.
Nel maggio/giugno 1983 è nato il Circolo Mario Mieli. In quel periodo avete deciso di fondare l’associazione. Tu che c’eri, ci racconti il contesto politico, culturale e sociale di quel momento?
Be’, forse bisogna fare un passo indietro perché il Mieli non nasce come un fungo isolato. Nasce in un contesto che era già attivo da anni. In Italia tutto comincia a muoversi con la nascita del Fuori (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) nel 1971 e della sua rivista, poi c’è stata la manifestazione di Sanremo del 1972, dove il movimento ha attirato per la prima volta l’attenzione dei media.
Dove peraltro c’era Mario Mieli…
Sì, c’era anche lui, perché Mario Mieli in quegli anni stava nel FUORI e scriveva anche sulla Rivista. Erano gli anni in cui il Fuori si era federato al Partito Radicale (l’unico partito che in quegli anni aveva aperto le porte al movimento gay). Il FUORI si chiamava proprio così perché era un movimento quasi esclusivamente maschile. C’erano anche delle donne all’interno, dato che la parola gay era intesa in senso ampio, ma la maggior parte faceva un altro tipo di percorso, più separatista, molto legato al movimento femminista. Quindi, il Partito Radicale ha avuto un ruolo determinante nella costituzione di quello che poi è diventato il Circolo Mario Mieli. Tutte le prime riunioni del Circolo le abbiamo fatte per almeno un paio d’anni nella sede del Partito Radicale, in via di Torre Argentina a Roma. Io invece poco prima della fondazione del Circolo ero a Pisa, all’Università, ed anche là fondammo una piccola associazione che si chiamava Collettivo Omosessuale Orfeo, e anche a Pisa eravamo ospiti del Partito Radicale. Poi, qualche anno dopo, anche il Partito Comunista ha cominciato a sciogliere i suoi ghiacciai interni e ha cominciato ad avere un atteggiamento diverso, almeno da un punto di vista teorico. Ha cominciato a dialogare col movimento gay, tant’è che ci furono incontri anche con i sindaci: a Roma abbiamo incontrato Luigi Petroselli e Ugo Vetere; nelle grandi città, come Bologna, abbiamo incontrato renato Zangheri, a Torino l’allora sindaco Diego Novelli.
Questo il contesto storico nel quale si incornicia la fase preliminare della nascita del Circolo Mario Mieli. Quindi siamo ancora negli anni ‘70. Raccontaci cosa avvenne dopo…
Al XIV congresso del Partito Radicale, avvenuto a novembre 1974 a Milano, il FUORI si federò ufficialmente con i Radicali, proprio perché Angelo Pezzana (il fondatore del Fuori, nonché curatore della Rivista) era molto vicino al Partito radicale. Questo procurò una reazione da parte delle nuove generazioni che non volevano un legame con un partito, non perché avessero dissidi col Partito Radicale, quanto perché c’era, nella metà degli anni ‘70, questa idea del Movimento Libero (era il periodo delle contestazioni giovanili, dei cortei, delle radio libere e delle associazioni culturali che nascevano come funghi), e quindi c’era questa esigenza forte di autonomia e indipendenza per la quale tutti i Partiti erano visti come qualcosa di vecchio e rigido, nonché limitante. Quindi cominciarono a nascere dei collettivi autonomi ed indipendenti. A Milano nacquero i COM (Collettivi Omosessuali Milanesi), fondati proprio da Mario Mieli che nel frattempo si era staccato dal FUORI; a Bologna nacque il collettivo Frociarista; a Pisa nacque il collettivo Orfeo; a Roma, il Narciso; a Taranto, il collettivo Magna Frocia. Insomma, tanti piccoli collettivi che magari sono vissuti poco tempo, ma che comunque testimoniano il grande fermento. I collettivi rimasti hanno avuto il massimo del loro sviluppo nel biennio 1979-1981, anni importantissimi per il movimento gay, perché cominciò a maturare la possibilità di fare comunità, che prima non era mai stata possibile, anche fisicamente. Eravamo naturalmente in un’altra epoca, non esistevano telefonini, non esisteva Internet; tutto avveniva tramite i telefoni di casa o nei luoghi pubblici (bar e cabine telefoniche), oppure tramite posta ordinaria. Questo era il modo con il quale noi comunicavamo, ma le cose riuscivamo a farle ugualmente. Oggi sembra impensabile, ma in un mondo senza tecnologia, la comunicazione e l’informazione funzionava lo stesso. In quegli anni il movimento ha fatto delle cose davvero interessanti, come ad esempio i campeggi gay, che sono stati dei crogioli culturali e politici nei quali si sono strutturati collegamenti forti che hanno permesso al movimento di fare un salto in avanti. Per la prima volta ci conoscevamo, ci incontravamo, ci guardavamo in faccia ed eravamo alcune centinaia di gay, cosa impensabile fino a quel momento, dato che non c’era mai stata una manifestazione, salvo qualche riunione semi-clandestina di 7/8 persone. Quei campeggi signficavano invece vivere 15 giorni a stretto contatto con altri 400 gay, tutte persone molto motivate, pronte a rappresentare un’avanguardia, che avevano un grandissimo bisogno di comunicare, conoscersi e di scopare – perché facevamo anche quello, ovviamente. Hanno rappresentato un momento fortissimo di scambio culturale e politico da cui sono nate altre cose molto significative. Molte delle persone che si sono conosciute in quel campeggio numero 1, quello a Capo Rizzuto nel ‘79, si sono poi ritrovate dentro il Circolo Mario Mieli – come ad esempio io, Marco Sanna, Ugo Bonessi, Enrico Giordani e svariate altre persone. Quindi prima il FUORI, poi Sanremo, poi i campeggi, che appunto sono legati a quest’ala movimentista, autonoma rispetto al FUORI che comunque continuava il suo lavoro in maniera più seriosa ed istituzionale, organizzando congressi, facendo informazione, pubblicando articoli, un lavoro altrettanto importante. Invece il movimento più movimentista, più libertario, più vicino all’idea di politica del movimento giovanile di quel periodo, ha fatto tutto il resto. Nello stesso periodo nasceva anche la rivista “Lambda”, che veniva spedita tramite posta ordinaria, che ha funzionato tantissimo come elemento di comunicazione in quegli anni.
Come veniva distribuita Lambda?
Felix Cossolo, il direttore editoriale di Lambda, aveva un indirizzario che si era fatto nel corso degli anni, Spediva Lambda in busta chiusa e anonima a tutti coloro che aveva nell’indirizzario, a sue spese fra l’altro, perché era un bollettino gratuito e ogni tanto qualcuno faceva qualche donazione. In seguito, c’è stata anche l’esperienza de “LA PAGINA FROCIA” ospitata su “Lotta Continua” che è durata per sette mesi: una pagina completamente autogestita dal movimento gay, una conquista del Collettivo Narciso che aveva sede proprio qui a Roma. In quei sette mesi di attività diverse persone attive nel movimento gay dell’epoca hanno scritto diversi articoli; molti sono stati scritti da Porpora Marcasciano, altrettanti da Marco Sanna, ed altri ancora da diversi membri del Collettivo Narciso.
Quali erano gli argomenti?
Politica, attualità, scritti contro la violenza, resoconti di incontri di assemblee, dibattiti, proposte, riflessioni. Non c’era un filo conduttore, era molto caotica.
“Sembra una contraddizione, eppure gli anni in cui governava la Democrazia Cristiana, cioè il partito per antonomasia conservatore, cattolico e baciapile, furono gli anni in cui passarono: la legge sul divorzio, la legge sull’aborto e il diritto di famiglia, fu approvata la pillola anticoncezionale e la legge sulla riattribuzione di genere (legge 164 del 1982). Questo fa capire il clima di apertura di quel periodo”.
Come aveva reagito il pubblico di lettori di Lotta Continua?
In quegli anni non c’era l’idea dello scandalo. Il movimento gay era visto con simpatia, noi ci sentivamo molto a nostro agio; io non mi sono mai sentito una sola volta preso di mira o a disagio nei vari contesti in cui abbiamo fatto esperienze, politica, iniziative. Erano anni molto diversi, di apertura mentale, di desiderio di novità e speranze; c’era un desiderio di cambiamento enorme non solo da parte della comunità gay ma di tutta la popolazione giovanile, era proprio un contesto generale. Tutte le battaglie facevano parte di un movimento culturale e politico generale. C’era una grandissima speranza di cambiare il mondo, molto utopicamente ed ingenuamente. Poi questa speranza è andata svanendo.
Avere degli ideali così sentiti e la convinzione che si potessero realizzare è però uno stimolo ineguagliabile… Avevate una motivazione fortissima…
È incredibile, perché in quegli anni governava la Democrazia Cristiana, cioè il partito per antonomasia conservatore, cattolico e baciapile, eppure è passata la legge sul divorzio, la legge sull’aborto, il diritto di famiglia; è stata approvata la pillola anticoncezionale, la legge sulla riattribuzione di genere (legge 164 del 1982) e sono state fatte un sacco di cose. C’era un movimento generale di apertura.
“A marzo 1983 si suicidò Mario Mieli, che per noi non era una persona qualsiasi: era un simbolo, era un’icona, era il nostro riferimento culturale, era la nostra “diva in terra”, noi lo adoravamo e avevamo tutti letto con avidità il suo “Elementi di critica omosessuale”, il primo testo teorico che aveva approfondito il tema dell’omosessualità in maniera critica, intelligente, ironica, innovativa e rivoluzionaria, perché parlava di temi forti che non erano mai stati affrontati. Era la sua tesi di laurea. Per noi era un Bibbia. Una rivoluzione”.
Come arriviamo alla fondazione del Circolo Mario Mieli?
A Roma, come dicevo, operavano il Collettivo Narciso e una costola del FUORI, guidata da Bruno Di Donato, con il suo approccio pragmatico e adulto, un po’ da papà. Tra l’altro lui era padre, aveva dei figli già grandi avuti da un precedente matrimonio e aveva un fidanzato in maniera totalmente pubblica, anche coi suoi figli. L’episodio che scatenò una reazione decisa fu l’omicidio di Salvatore Pappalardo a Monte Caprino, nei giardini del Campidoglio, avvenuto il 23 aprile 1982. Questo ragazzo era di passaggio a Roma. Salvatore venne massacrato da un gruppo di persone, in un’aggressione volutamente omofoba con lo scopo preciso di ammazzare qualcuno. Fu preso a bastonate e massacrato sul posto da un gruppo che non fu mai individuato. Questa cosa scatenò in tutti noi, in tutta Italia, una reazione fortissima e, proprio perché c’era questo contesto così di apertura, magari di omicidi (o di “Omocidi”, che poi è il titolo del mio libro pubblicato molti anni dopo) ce n’erano già stati ma di solito finivano nella cronaca nera e rimanevano piuttosto anonimi. Una violenza che ciascuno di noi conosceva e denunciava, ma nessuno di quegli altri casi aveva mai scatenato una tale reazione, eccezion fatta per l’omicidio di Pasolini che naturalmente ebbe una serie di conseguenze forti, alcune anche positive, perché fu allora che il famoso Partito Comunista cominciò a riflettere sulle condizioni dell’omosessualità in Italia. Quindi, l’omicidio di Pappalardo fece da detonatore. Era il momento giusto evidentemente per reagire. Fu organizzata una manifestazione a Roma che si è svolta il 15 maggio 1982, alla quale aderirono varie formazioni politiche: il Partito Comunista; Walter Veltroni che all’epoca consigliere comunale; Lidia Menapace che era di Sinistra indipendente; Angela Bottari, che era una senatrice del Partito Comunista. La manifestazione non fu certamente oceanica, come le intendiamo noi oggi, perché all’epoca i numeri erano piccolini, ma c’erano alcune centinaia di persone e il giorno dopo chiedemmo un incontro con l’allora sindaco di Roma, Ugo Vetere, che ci ricevette nella sala Borromini. In quell’occasione chiedemmo ufficialmente una sede e un’azione da parte del Comune contro la violenza. Naturalmente questo non portò nessun frutto sul momento, ma ebbe un forte valore simbolico. Va ricordato che questa non fu la prima volta che il movimento incontrava un sindaco: il Fuori aveva già incontrato Giulio Argan, che era il precedente sindaco di Roma, un anno o due prima. In seguito, le varie anime che agivano sparpagliate a Roma in quegli anni decisero di unirsi e nacque il Movimento Unitario Omosessuale Romano (M.U.O.R.). Siccome però la sigla non esprimeva un concetto positivo, si decise di cambiarlo in un decisamente più gradevole C.U.O.R (Movimento a Coordinamento Unitario Omosessuale Romano). Questo fu, a tutti gli effetti, il numero zero del Circolo Mario Mieli. Ci incontravamo sempre al Partito Radicale, perché era l’unico partito che apriva le sue porte. All’interno convergevano: il Collettivo Narciso, che era nato in ambito universitario alla Sapienza (dove militavano Marco Sanna, Porpora Marcasciano, Enrico Giordani, Raffaele Anello ed altri); c’era il FUORI, con Bruno Di Donato. Non era lui da solo, ma nel frattempo gli altri che avevano fatto parte di questo nucleo fuori romano e Carlo Labadie; c’era Marco Bisceglia, colui che fondò l’Arcigay a Palermo in seguito all’omicidio dei due ragazzi di Giarre (non l’Arcigay nazionale che poi abbiamo conosciuto dopo, era un’associazione locale, sempre nata dalle ceneri del FUORI). Bisceglie – ex prete, prete della contestazione, lavoratore, anti anti-chiesa tradizionale, tanto che fu spretato, aveva dichiarato la sua omosessualità e fu sospeso – si trasferì a Roma per lavorare per l’Arci, e da lì confluì anche lui nel movimento. Poi si aggiunsero altre persone: Vanni Piccolo, che faceva l’insegnante, che non proveniva da nessuna di queste associazioni, era un libero cittadino politicamente orientato a sinistra ma non aveva tessere, non faceva parte del movimento gay, ma dopo l’episodio si avvicinò. Quindi, eravamo tutte persone diverse che venivano da realtà diverse tra di loro. Nel periodo tra l’inverno 1982 e la primavera 1983 si discuteva di un nome da dare a questa nuova realtà. A marzo 1983 si suicidò Mario Mieli, che per noi non era una persona qualsiasi: era un simbolo, era un’icona, era il nostro riferimento culturale, era la nostra “diva in terra”, noi lo adoravamo e avevamo tutti letto con avidità il suo “Elementi di critica omosessuale”, il primo testo teorico che aveva approfondito il tema dell’omosessualità in maniera critica, intelligente, ironica, innovativa e rivoluzionaria, perché parlava di temi forti che non erano mai stati affrontati. Pubblicato da Einaudi, era la sua tesi di laurea. Insomma, una rivoluzione per noi. Era la nostra Bibbia. Lui viveva a Milano, quindi qualcuno di noi l’aveva conosciuto, soprattutto Francesco Gnerre, che è stato tra i fondatori del Circolo, il quale aveva rapporti epistolari con lui perché da sempre si occupava di studio della letteratura. Io l’ho incontrato due volte, ma in maniera del tutto sociale, senza approfondire in nessun modo l’amicizia con lui. Ero molto amico di Corrado Levi, architetto milanese e tra i fondatori del FUORI, che ora ha 93 anni, e tramite lui avevo un legame indiretto con Mario Mieli. Insomma, quando morì Mario Mieli per noi fu un momento davvero drammatico. Sapevamo che non stava bene perché era un ragazzo complicato, aveva crisi depressive, soffriva di disturbi della personalità; quindi, la cosa non ci stupì più di tanto, ma ci addolorò profondamente. Quindi, mentre eravamo nel momento della discussione su che nome dare al Circolo, avevamo pensato di intitolarlo a Salvatore Pappalardo, visto tutto il percorso fatto fino a quel momento, ma di fronte alla morte di Mario Mieli ci fu un’ovazione di fronte alla proposta. E non ci furono più dubbi.
Perché l’idea di dare un nome di qualcuno all’associazione?
Volevamo dare un nome che fosse simbolico e che avesse un significato pubblico, quindi Salvatore Pappalardo, perché noi ci volevamo contrapporre alla violenza omofobica; Mario Mieli, perché non c’è bisogno di dirlo, era il numero 1 nella cultura e nel mondo omosessuale di quel momento. E quindi quando siamo andati dal notaio a fare l’atto costitutivo abbiamo dichiarato che il Circolo si sarebbe chiamato Circolo di Cultura Omosessuale “Mario Mieli”. L’atto costitutivo lo abbiamo fatto a maggio 1983 e il Circolo è nato tra il maggio/giugno, formalmente con atto notarile. Abbiamo partecipato tutti quanti noi nominati in precedenza, tutti soci fondatori. Io fra l’altro mi ero trasferito a Roma alla fine del 1982, prima ero a Pisa dove avevo fondato, insieme ad altri, il Collettivo Orfeo, che a Pisa organizzò quella grossa manifestazione importante, e scrivevo su Lambda, quindi insomma ero titolato (ride).
Chi fu il primo Presidente?
Bruno Di Donato, perché nel momento della registrazione dal notaio, mi sembra di ricordare che fosse già necessario indicare il Presidente. E c’era anche un direttivo.
Come arriviamo alla sede dove siamo oggi?
La sede è venuta molto dopo. Per i primi tempi ci siamo appoggiati alla sede fornitaci dal Partito Radicale. La prima grande manifestazione pubblica che abbiamo fatto è stata nel giugno dello stesso anno e sono stati tre giorni di dibattiti, di cultura, di film, di spettacoli di piazza, che coincidevano con il Pride. Quello che adesso chiamiamo Pride e all’epoca chiamavamo “Giornate dell’Orgoglio Omosessuale”, perché preferivamo l’italiano, e che per anni abbiamo festeggiato come la “Giornata dell’Orgoglio Gay”, ossia il 28 giugno. Già quell’anno abbiamo festeggiato il primo Pride, chiamandolo in un altro modo, non nel giorno esatto, ma sempre a giugno. Il Comune per l’occasione ci aveva montato un palco in piazza Farnese; quindi, in quei tre giorni non eravamo nella sede del Partito Radicale. Vennero a fare lo spettacolo: le Pumitrozzole, che era una compagnia teatrale di Parma all’interno della quale c’era anche una Platinette agli albori; venne Ciro Cascina a fare la sua Madonna di Pompei; e venne anche la compagnia di danza di Elsa Piperno e Joseph Fontano, che sono stati i primi a portare in Italia la danza contemporanea.
Tutto autofinanziato?
Il palco ce lo pagò il Comune e ci diede un piccolo finanziamento. Col finanziamento pagammo la compagnia di Elsa Piperno.
Raccontaci questa prima bozza di pride…
Durante la tre giornate dell’orgoglio, la nostra sede operativa divenne il Museo di Roma in Trastevere (in piazza Sant’Egidio), dove abbiamo fatto una mostra, dei dibattiti. Insomma, per tre giorni abbiamo bivaccato lì dentro. Abbiamo avuto la possibilità di proiettare un film al Cinema Colonna in Piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi, dove poi per anni è stata la Feltrinelli in Galleria. Llì proiettammo “Taxi Zum Klo” che vuol dire “Ai cessi in tassì”, un film di un regista tedesco (Frank Ripploh), la cui trama raccontava i bagordi di una travestita che andava appunto a battere i cessi in taxi e poi, la mattina dopo andava a scuola senza avere nemmeno avuto il tempo di passare da casa a struccarsi perché faceva l’insegnante; quindi, arrivava sulla cattedra ancora molto allegra. E noi abbiamo proiettato questo film in faccia a Montecitorio. Mi piacerebbe tanto che questa cosa si potesse fare ancora oggi, in faccia a quella str… della Meloni, ma i tempi sono cambiati. Ad ogni modo, il Comune fu molto collaborativo, perciò l’incontro con Ugo Vetere, anche se non aveva dato i frutti sperati per quel che riguardava la sede, ci diede comunque risultati notevolissimi riguardo questi tre giorni finanziati coi manifesti per strada. Questa fu la prima azione del Circolo, nata contro la violenza, con una richiesta di presenza visibile nella città, una richiesta di spazi da poter occupare per fare cultura.
“Nell’autunno 1983, quindi neanche al nostro primo anno di vita, cominciò ad arrivare il problema dell’aids. E tra l’85 e il ‘91 fu una carneficina spaventosa. Del Circolo morirono Marco Sanna, Marco Rulli, Bruno di Donato, Marco Bisceglia. Tutti e quattro di aids”.
E poi arrivò l’aids…
Nell’autunno 1983, quindi neanche al nostro primo anno di vita, cominciò ad arrivare il problema dell’aids. Il primo articolo su Babilonia (Lambda fu chiusa nel 1982, quando Felix Cossolo e Ivan Teobaldelli lanciarono il primo mensile gay in edicola, Babilonia, appunto) sull’aids uscì a giugno 1983, ossia mentre noi stavamo nascendo. Lo leggemmo, ma ci sembrava una cosa così lontana da noi, al punto tale da pensare che non ci avrebbe mai riguardato. Noi lo sapevamo perché leggevamo i giornali. Ma ci sembrava un polverone enorme su qualche piccolo problema sanitario d’oltreoceano. Senonché nell’autunno 1983 arrivò Ferdinando Aiuti, che era il medico primario di Infettivologia dell’Umberto I, che venne a trovarci nella sede che ottenemmo nel PDUP (Partito di Unità Proletaria) a San Lorenzo, e ci disse “Ragazzi, la cosa si fa seria. Noi abbiamo bisogno di un referente perché questa malattia colpisce prevalentemente gli omosessuali e quindi voi siete l’unica associazione in città”. Poche settimane dopo lo stesso identico discorso ce lo fece il capo del Servizio Infettivologia dell’Istituto Superiore di Sanità, Giovan Battista Rossi. Allora a noi sembrò più affidabile l’Istituto Sanitario, piuttosto che il singolo primario. Era l’istituzione massima. Ci sentivamo increduli e spaventati, ma più che altro ridevamo, perché ci sembrava una cosa talmente assurda, talmente lontana da noi che l’abbiamo presa con leggerezza, anche se poi ci chiesero di diventare una “Coorte di riferimento” per poter fare analisi, per poter fare prelievi e testarci anonimamente, perché eravamo in collegamento con un istituto americano con il quale era possibile poter fare confronti statistici medici. Tenete conto che all’epoca non era ancora stato individuato l’HIV, stiamo parlando del 1983, cioè si sapeva che c’era la malattia, ma non si sapeva nient’altro. Quindi noi abbiamo cominciato a far parte di questo gruppo di ricerca, e dovevamo dare sangue, urina e sperma perché non si sapeva ancora né come né dove cercare il virus. Tutto questo avveniva allo Spallanzani. Quindi, d’inverno, prima di andare in cattedra dai miei studenti, alle 7,30 andavo allo Spallanzani a donare lo sperma. E come me, tantissimi altri. Eravamo in un gruppo a ridere, perché ci sembrava una situazione comica. Non sapevamo ancora che fosse già in Italia, e che era già fra di noi. L’abbiamo saputo drammaticamente dopo, quando è stato individuato il test “ELISA”, che poteva fare la ricerca nel sangue. Abbiamo cominciato a testarci e nel 1985 sono venuti fuori i primi sieropositivi fra di noi. L’HIV è stato isolato nel 1984 da Gallo e da Montagnier. Solo dopo sono riusciti a creare il test per la ricerca del virus nel sangue, quindi all’inizio del 1985, l’anno nel quale avvenne il tracollo e capimmo che il virus circolava fra noi. E tra l’85 e il ‘91 fu una carneficina spaventosa. Del Circolo morirono Marco Sanna, Marco Rulli, Bruno di Donato, Marco Bisceglia. Tutti e quattro di AIDS. Nel frattempo, circolava anche tra diverse star internazionali e quindi la tensione salì a livello globale e ci si concentrò sulla ricerca sanitaria. Questa è stata la svolta che dovette affrontare il Circolo, appena nato con tutte altre prospettive. Ci siamo dovuti rimboccare le maniche e affrontare questa cosa spaventosa, non abbandonando le nostre attività culturali. D’estate le rassegne di cinema in vari cinema romani, le nostre presentazioni di libri… Insomma, siamo andati avanti. Facevamo delle feste tutte le volte che era possibile, sempre in luoghi diversi perché non avevamo ancora la sede. Poi dal PDUP a San Lorenzo diventammo ospiti della Cgil, in piazza Vittorio Emanuele, e lì siamo rimasti per parecchi anni. In quella sede è nato il primo punto di analisi anonime che il Circolo ha organizzato tra il 1987-1988, grazie a un medico volontario e alle autorizzazioni ufficiali dell’Istituto superiore di Sanità, che ci autorizzò ad aprire un ambulatorio per le analisi anonime lì, in una stanzetta della sede della Cgil che ci aveva prestato. E poi verso il 1988 il Comune finalmente ci diede questa sede.
Ma come si è arrivati a questa sede? Eravate voi che insistentemente chiedevate?
Tutto è cominciato con il sindaco Vetere, con la prima richiesta ufficiale. Negli anni successivi abbiamo presentato progetti, mandato richieste e il sindaco ci ha dato questa sede, ma si entrava da via Ostiense 202, con grande scandalo dei vicini e, dato che ci furono delle proteste, ci aprirono quel cancello dalla parte opposta (la leggendaria e storica entrata in via Corinto 5).
Ci stavi raccontando che comunque il contesto della città era molto molto favorevole. Come è cambiato questo aspetto con l’arrivo dell’HIV?
È cambiato molto perché le persone hanno cominciato ad avere paura. C’è stata una campagna di stampa spaventosa: “il mostro gay”, “il cancro gay”. Eravamo indicati come gli untori. Si è passati da una discriminazione non solo culturale, ma anche sociale; mi ricordo che c’erano sui giornali, articoli di baristi che si rifiutavano di usare le tazzine normali e usavano soltanto bicchierini di plastica.
C’era molto questa ideologia del “se lo meritano, Dio li ha puniti”, che in qualche modo rinvigoriva la questione discriminante…
Certo! Ci fu il ministro Carlo Donat-Cattin, democristiano cattolico, il quale dichiarò una volta in un’intervista “L’aids se lo prende chi se lo va a cercare”. E questo chiaramente fomentava tanto l’odio. La cosa interessante di quegli anni è che l’omofobia si esprimeva pochissimo, cioè non c’erano episodi eclatanti di aggressioni verbali, di questi discorsi spaventosi che sentiamo oggi a proposito della procreazione assistita o altre cose, perché l’omosessualità era ancora un tabù, le persone avevano difficoltà a parlare di queste cose. Anche negli anni ‘50, ‘60 e ‘70, molti continuavano a provare un’impostazione censoria.
Forse perché eravamo figli dell’epoca fascista nella quale si metteva in atto l’ideologia del “non se ne parla, non esistono”. Non si usciva fuori perché nel fascismo era intrinseco che l’uomo italiano non potesse proprio essere omosessuale…
Sì, è vero, c’era proprio il culto dell’uomo fascista. Però poi, anche dopo la Democrazia Cristiana e il P.C.I. hanno continuato a sostenere un’idea moralista e sessuofobica della famiglia e del cittadino, e la mentalità non cambiò in quegli anni, se non nella fascia giovanile che aveva assorbito tutti i movimenti internazionali; prima di tutto quello del femminismo, che ha sparigliato le carte in maniera enorme, e tutto il movimento della lotta dei neri d’America. Entrambi i movimenti facevano capire che le minoranze avevano bisogno di organizzarsi e dovevano reagire. E quindi il movimento gay si muoveva nell’ambito di altri movimenti internazionali e libertari. E l’atmosfera era generalmente di apertura e curiosità, non carica di odio; chi aveva l’odio se lo teneva dentro per paura, perché parlare di omosessualità era sconveniente; quindi, gli attacchi omofobici che ci sono oggi, all’epoca non c’erano, e non perché non esistesse l’omofobia, anzi.
Non se ne parlava, perché parlarne significava comunque entrare in un ambito sconveniente…
I politici per anni non hanno pronunciato la parola “omosessualità”, anche uno come Veltroni che invece si diede da fare, come consigliere comunale, quando ci fu l’episodio di Pappalardo. Però poi nei discorsi pubblici lui aveva proprio difficoltà a pronunciare la parola “omosessuale”. Veniva dal Partito Comunista, erano moralisti e sessuofobi. E l’Italia è cresciuta così. Parallelamente però (l’Italia è interessante per questo, perché c’è sempre un doppione), sulla superficie c’era questa cultura sessuofobica, moralista e perbenista, ma contemporaneamente poi c’era quello che “si fa, ma non si dice”, per cui c’era tutto il nascosto nel quale c’era anche tanta possibilità di divertirsi sessualmente, almeno per gli uomini; per le donne molto meno, perché avevano meno libertà e quindi non avevano luoghi di incontro, non potevano uscire.”
Quindi l’HIV ha cambiato questa specie di calma apparente…
Sì, c’è stata una diffidenza, una grande gogna mediatica che ha screditato il movimento gay. Ci siamo trovati ad affrontare questa ondata omofobica massmediologica, ad affrontare il problema concreto della solidarietà per le persone sieropositive e che si andavano ammalando, e nello stesso tempo anche a difendere la libertà sessuale che avevamo conquistato negli anni precedenti. Non era colpa della sessualità, l’arrivo di questa malattia. Non potevamo materialmente cancellare la bellezza e l’importanza della liberazione sessuale; pertanto, è stato un discorso molto complesso, perché dovevamo agire su più fronti e ci abbiamo provato; nel nostro piccolo ci siamo anche riusciti. Abbiamo cercato di manifestarlo anche verso l’esterno, il più possibile. Le forze contro di noi erano certamente ben più grosse, la Chiesa prima di tutto, le istituzioni in gran parte, non tutte. Alcune istituzioni, soprattutto quelle locali, ci sono state vicine, anche per l’AIDS.
Quando hai avuto la percezione che questa discriminazione riguardo all’abbinamento gay-aids fosse rientratata?
Quando è stata introdotto l’uso della Triplex nella cura contro la malattia, nel 1995, anno in cui è stata messa a punto la cura fatta con tre farmaci. Le persone hanno smesso di morire da un giorno all’altro. Questo ha avuto anche delle conseguenze culturali, perché improvvisamente la malattia da mortale, pericolosissima e senza scampo, perché le persone morivano di continuo, è diventata una malattia cronica, curabile e, in qualche modo, questo ha allentato enormemente la tensione sociale. Ma ci sono comunque stati 10 anni di oscurantismo (1985-1995). Nei quali 10 anni, però non abbiamo assolutamente smesso di cercare di fare cultura, cioè di fare ciò che il Circolo si era dato come obiettivo iniziale quando è nato. Ad esempio, l’invenzione di Muccassassina risale a quegli anni lì ((le prime serate si iniziò il 3 ottobre 1990). Sembra una cosa strana ma comunque Muccassassina l’abbiamo inventata nel in piena epoca di AIDS e di morte, ma era anche la necessità di reagire, di fare qualche cosa di positivo, perché non c’era solo la morte, c’era anche la vita. Ed era il nostro modo per dimostrarlo.
Muccassassina è stata quindi una reazione in positivo per non soccombere?
L’idea della socializzazione e delle feste sono state da sempre connaturate al movimento gay. Noi abbiamo sempre visto il divertimento, la sessualità, la conoscenza, la visibilità, la musica, il ballare come cose che ci confacevano, erano ciò che noi volevamo come modo di divertimento e di socializzazione. Certamente l’arrivo dell’AIDS ci ha spinto ancora di più a cercare il divertimento. Erano ventate d’aria fresca, ma al contempo quelle feste sono diventate anche il luogo nel quale noi potevamo fare propaganda per il sesso sicuro, diventato oltretutto un obiettivo importantissimo.
Le altre associazioni italiane non facevano lo stesso?
Nessuno aveva una festa fissa per tutto l’anno.
Come è venuta l’idea di Muccassassina?
Tra il 1989 e il 1990 avevamo un locale in Trastevere, in via dei Fienaroli, che si chiamava Grigio Notte, e lì facevamo la festa ogni mercoledì. Parliamo di 50/70 persone, numeri piccolissimi, eppure eravamo già tanti. Poi la genialità e l’intraprendenza di Luciano Parisi ha individuato questo spazio dentro l’Ex Mattatoio, che era uno spazio occupato all’epoca, e lì abbiamo fatto la prima festa di Muccassassina. Il nome Muccassassina è nato proprio perché si teneva dentro l’Ex Mattatoio. L’idea alla base è che la mucca si ribellasse in quanto stanca di essere assassinata, e quindi diventa assassina, no? Quindi il logo con la falce nasce in questo contesto. Direi che la prima festa l’avremmo fatta nell’autunno del ‘91. Non aveva una cadenza precisa, al Mattatoio ne avremo fatte 4/5 nell’arco di un anno. Sono sicuro però che una delle serate l’abbiamo organizzata un 28 giugno (una Giornata dell’Orgoglio Gay) e mi ricordo che venne Aldo Busi a presentare un suo libro, intervistato da Francesco Gnerre, e abbiamo presentato il libro di Giuseppe Fadda, c’era anche Mario Fortunato. Insomma, ci abbiamo fatto svariate iniziative culturali.
Avevate già all’epoca la percezione di aver iniziato qualcosa di importante o per voi era una semplice festa?
È stata una bomba, sin dalla prima serata. Ci siamo detti “c’è una potenzialità enorme, c’è una voglia di incontrarsi e di divertimento che noi intercettiamo”. Dalla prima festa c’erano centinaia di persone, che venivano informate con passaparola, volantini, mandavamo i comunicati stampa tramite posta ordinaria o venivano consegnati a mano. Andavamo nelle portinerie dei quotidiani di persona. Avveniva così: la sera prima noi scrivevamo un documento, facevamo un articolo, un comunicato stampa. Lo stampavamo, c’’era il ciclostile all’epoca, ma noi non l’abbiamo mai avuto un ciclostile in sede, forse andavamo a stamparlo in qualche negozio. Ne facevamo 15 copie e poi facevamo il giro dei vari quotidiani (Messaggero, Tempo, Unità, Paese Sera, e così via). Da subito abbiamo cominciato a tenere la Rassegna Stampa. Mentre ero presidente (1989-1992), il Segretario era Francesco Simonetti, che poi è morto di AIDS anche lui, ed io insistevo perché facesse la rassegna stampa tutti i giorni, mi arrabbiavo se si dimenticava.
Quindi sotto la tua presidenza sono successe tante cose importantissime?
Quando sono stato Presidente è nato il gruppo di autoaiuto per persone sieropositive, è nato il gruppo di assistenza psicologica, è nato il telefono aiuto, è nata Muccassassina. È nato il numero 0 di una rivista che si chiamava Romo, di cui abbiamo il numero zero e che avrebbe dovuto essere quello che poi è diventato molti anni dopo AUT. Era disegnato da Giuseppe Fadda. E quindi sono stati anni molto, molto ricchi, molto produttivi. Io sono stato molto determinato, pragmatico e puntiglioso, e quindi rompevo le balle a tutti perché volevo arrivare a degli obiettivi concreti. E ci siamo riusciti.
Perché poi ti sei allontanato dal Circolo?
Quegli anni per me sono stati pesantissimi, perché ho perso il mio più caro amico, Marco Sanna, che era la mia anima gemella, non eravamo fidanzati ma eravamo amicissimi. Il Circolo poi funzionava anche molto sulla solidarietà tra le persone interne. Io, Vanni, Marco e Francesco Gnerre eravamo le quattro persone che più erano unite, ci sentivamo, lavoravamo insieme. La morte di Marco è stata spaventosa per me. E poi la responsabilità era troppa; io facevo anche l’insegnante, avevo un lavoro e quindi il mio tempo libero era limitato, e il Circolo mi assorbiva tantissimo. Inoltre, nel frattempo Muccassassina non era più una cosa semplice da gestire, perché in quegli anni ci siamo spostati al Cinema Castello, e da lì è diventato un appuntamento settimanale di venerdì. Gestire la macchina di Mucca era già allora una cosa estremamente complessa, perché c’erano gli artisti, c’erano i volontari, c’era il bar, c’era la gestione dei proprietari e c’erano gli ospiti.
Sotto la tua Presidenza è arrivato Vladimir Luxuria?
Vladimir è arrivato dopo di me, lo conoscevo, frequentava Mucca sia come volontario che come cliente, ma non era direttore artistico. Era Luciano Parisi il gestore all’epoca, poi per un periodo hanno collaborato Giorgio Gigliotti ed Enrico Simonetti, che andava a Londra a prendere i nuovi dischi per fare il DJ. Insomma, c’era gente in gamba che si dava da fare. Vladimir è arrivato dopo, credo che sia arrivato con la gestione di Deborah Di Cave; quindi, finché ci sono stato c’erano Francesco Simonetti e Luciano Parisi. Il grafico era Massimo Crisafulli, bravissimo perché faceva tutte le locandine, stupende oltretutto.
Con quali occhi hai guardato questa creatura che comunque tu hai contribuito a creare?
A volte con diffidenza, a volte con simpatia, a volte con senso di distanza e di esclusione, nel senso che non mi sono sentito per niente incluso. Ogni nuovo Presidente agisce come se volesse cancellare il passato, cosa che io trovo deleteria, perché invece l’esperienza va conservata e valorizzata perché diventa storia, diventa radice e quindi è ingenuo e stupido pensare che ogni Presidente ha in mano un giocattolo da fare nuovo. L’importanza del Circolo Mario Mieli è il fatto che sia sopravvissuto per quarant’anni, ed è stato un miracolo. Questa è la sua vera forza, e bisognerebbe valorizzarla il più possibile. Penso che, sebbene per differenze di esperienza tra me e i diversi presidenti nel corso degli anni, ciascun momento sia stato importante. Parliamo di quarant’anni di attività. Di storia. Di vita. Quello che voglio sottolineare è che la storia del Circolo non ha importanza tanto per le singole persone che l’hanno fatta e vissuta, ma ha importanza perché crea le radici. E noi abbiamo bisogno di radici, perché a differenza delle altre comunità di minoranze, la nostra è una comunità priva di radici. Il mondo ebraico, ad esempio, che è una minoranza non solo religiosa ma anche sociale, ha un fortissimo connotato culturale che la unisce a dei riti, delle usanze, delle tradizioni, e soprattutto ha dei riconoscimenti all’interno delle famiglie. Nelle varie etnie di immigrati che sono arrivati in Italia in questi ultimi 20-30 anni, ognuna ha le sue tradizioni e le sue radici. Noi invece non le abbiamo, perché i gay nascono in famiglie che non li prevedono e che sono famiglie eterosessuali. Quindi le nostre radici devono essere da qualche altra parte, non possono stare dentro la famiglia, devono essere visibili, devono essere concrete, devono essere il substrato sul quale cresce una comunità così dispersa. Perché noi nasciamo dispersi e abbiamo bisogno di poterci riconoscere per confrontarci con i nostri simili, per crescere, per crearci un’identità, per crearci una personalità. Ne abbiamo bisogno. È necessario per un gay, per una lesbica, per un* trans* potersi confrontare coi propri simili. È una necessità umana, culturale e identitaria. E le radici crescono nel momento in cui si riconosce una storia comune, nel momento in cui si conserva, si coltiva, la si fa conoscere e la si diffonde, portandola anche nelle scuole e negli spazi pubblici, in cui si può discutere, ci si può scambiare esperienze facendo pressione sulle istituzioni. Insomma, è una minoranza che deve lavorare molto, non può dare per scontato nulla. E quindi ecco, la nostra storia è la nostra forza.
(Intervista realizzata in collaborazione con Valeria Scancarello)