Al solo nominare la comunità LGBTQIA+ risuonano, nella mente di tutt3, slogan adornati di concetti come libertà, autodeterminazione, sospensione del giudizio… Sarebbe bello saperci, per l’appunto, liber3 e autodeterminat3 tanto quanto ci piace raccontarci. Purtroppo però, come ogni comunità, viviamo dentro di noi gli stessi bias e le stesse dissonanze cognitive di chiunque altr3. E’ da queste radici, antichissime e fortemente salde nelle nostre coscienze, che prendono vita i tabù. Fra i tanti, dei quali si potrebbe parlare a lungo, ne abbiamo scelti alcuni e ne abbiamo parlato con chi li vive sulla propria pelle tutti i giorni. Con Ali, Chiara ed Elena abbiamo parlato di pansessualità, poliamore e salute mentale. Temi apparentemente distanti, ma tutti ugualmente portati dalla società contemporanea e, purtroppo, dalla nostra stessa comunità, ad essere etichettati come temi scomodi, da nominare solo sottovoce.
Ali Bravini, 27 anni. Storica contemporanea, responsabile del Centro di Documentazione Marco Sanna e attivista per i diritti LGBTQIA+. Topic: poliamore, neurodivergenze, salute mentale.
Cosa si intende per non monogamie etiche?
Per “non monogamie etiche” si intendono i vari tipi di relazione al di fuori della coppia monogama, etero o queer che sia. Rientrano in questa definizione relazioni come le “coppie aperte”, il poliamore o l’anarchia relazionale; si intende un tipo di relazione basata sulla comunicazione e sul consenso tra l3 vari3 partner, per cui non c’è una esclusività sessuale e/o romantica ma l3 partner sono liber3 di avere rapporti sessuali e/o relazioni amorose con altre persone. Il fondamento etico di tutto ciò è appunto il consenso e la comunicazione, con lo stabilirsi anche di vari e possibili limiti o gerarchie all’interno del rapporto poliamoroso.
In che modo hai scoperto di essere non monogama?
Personalmente ho scoperto di essere non monogama dopo delle relazioni da “coppia tradizionale” veramente disfunzionali, soprattutto sul tema della gelosia e dell’esclusività. Ho prima imparato di poter amare e intrattenere, consensualmente, più di un rapporto romantico allo stesso tempo. Entrando a contatto con persone poliamorose sono stata dentro un “sistema” di anarchia relazionale, dove, appunto, non esisteva una vera gerarchia tra l3 vari3 partner e ho scoperto una certa nuova fluidità che mi calzava molto bene.
Come hai trovato info sul tema? Hai trovato delle realtà con le quali confrontarti?
Le varie informazioni le ho inizialmente trovate approcciandomi direttamente con persone poliamorose, quindi tramite passaparola e l’esperienza personale di altre persone. In seguito ho iniziato a informarmi fondamentalmente sui social seguendo varie personalità e influencer poliamorose che fanno divulgazione sul tema.
Ti sei sentita accolta o hai incontrato discriminazione dentro/fuori la comunità riguardo il tuo stile relazionale? Quali sono state le circostanze delle discriminazioni?
Dentro la comunità lgbtqia+ non ho subito discriminazioni sul mio stile relazionale. Purtroppo però sono stata in relazioni queer disfunzionali. Non penso esista veramente una “comunità poli” ma in generale diciamo che non è oro tutto quel che luccica. Esiste, comunque, ancora un grande tabù, fuori e dentro la comunità, per tutto ciò che riguarda il mondo non-monogamo. Rimane difficile da smontare e difficile parlarne, anche all’interno della comunità e, anche se in altri paesi si è un po’ più avanti da qualche anno, qui ci sono resistenze sul tema anche perché riguarda lo stile relazionale e l’orientamento romantico della persona: in sostanza, anche le persone etero possono essere poliamorose e questo crea sempre discussioni. Le stesse discussioni si fanno ancora sull’asessualità o sull’essere kinky, ad esempio.
Quali sono gli stereotipi legati al tuo stile relazionale?
Sicuramente permangono gli stereotipi sull’essere, semplicemente, delle persone “promiscue”, incapaci di stare in una relazione “fissa” (insomma, “tradizionale”). Ovviamente la verità è più ampia. Viviamo ancora in una società che ci impone la coppia come un modello e il matrimonio tradizionale come un obiettivo fondamentale della nostra vita, nonostante questa visione sia molto recente, storicamente. Credo più al fatto che le nostre relazioni siano costellazioni e pianeti di un’enorme galassia e che non si può pretendere che una sola persona (noi stess3 o l3 partner) possa riempire la marea di “bisogni” relazionali, affettivi o sessuali che proviamo. Questo vale sia per le relazioni poliamorose che per le relazioni amicali, platoniche: sono necessarie e vitali. Un altro grande stereotipo è quello legato all’ipersessualità. Non tutte le persone poliamorose sono ipersessuali: io, ad esempio, sono demisessuale e mi sento a mio agio, a livello sessuale, solo dopo aver instaurato un certo tipo di relazione emotiva e amorosa. Il tabù dell’educazione sessuale e dell’educazione al consenso è ciò che fomenta questi stereotipi e rafforza, invece, lo stile della coppia tradizionale, spesso disfunzionale sul piano romantico e comunicativo. Far cadere i tabù, informare e infine riuscire a comunicare in maniera sana con l3 propri3 partner è ciò di cui abbiamo bisogno per buttare giù certi pregiudizi: non basta parlarne e parlarne, serve anche un’azione politica sistemica.
Ti senti sicura a parlare del tuo stile relazionale quando conosci qualcuno?
Dentro la comunità, mi sono sentita abbastanza sicura. Al di fuori, non allo stesso modo di come non mi sento sicura di poter parlare del mio orientamento o della mia identità di genere. In generale, sia tra conoscenti che tra le amicizie più strette, è già molto difficile rompere il tabù del sesso, della sessualità libera e fluida. Il tabù della monogamia è ancora più difficile da toccare, ci addentriamo in una serie di pregiudizi pericolosi e pesanti, legati a situazioni che in realtà sono personali, particolari, private.
Hai ricevuto rifiuti amorosi a causa del tuo stile relazionale?
No per fortuna e, anzi, ho attualmente una relazione stabile e monogama nonostante la mia partner sappia del mio essere poliamorosa. Anche in questo caso mantenere una comunicazione sana all’interno del rapporto aiuta a non creare tabù, non detti, tradimenti e altre situazioni spiacevoli sulla gelosia.
Quali sono delle buone fonti per informarsi su questa tematica?
Purtroppo in Italia c’è ben poco a livello di bibliografia ma consiglio “Per una rivoluzione degli affetti” di Brigitte Vassallo e “La zoccola etica” di Dossie Eston e Janet Hardy. Quest’anno è uscito anche “Poliamore” di Car G. Lepori e Nicole “Nic” Braida.
In quale parte dello spettro delle neurodivergenze ti trovi?
Personalmente, mi trovo nello spettro dell’ADHD (Attention deficit hyperactivity disorder) di tipo iperattivo.
Come hai scoperto di non essere neurotipicə?
Ho “scoperto” di essere neurodivergente quando, circa 6 anni fa, la mia psichiatra dell’epoca, riflettendo sulla mia adolescenza e il mio “stare” a scuola (e in varie situazioni sociali), mi aprì gli occhi e unì i puntini. In generale, quando ero al liceo conoscevo una sola persona con DSA, nessunə aveva diagnosi di neurodivergenza o di autismo, non se ne parlava e mi trattavano semplicemente come una persona problematica e troppo iperattiva. Ricordo ancora espressioni come “hai il ballo di san Vito”, “sei un cavallo pazzo”, “hai l’argento vivo addosso’ etc etc. Venivo spesso odiata dall3 professor3 perché ero capace di fare molte cose contemporaneamente durante le lezioni o forse è meglio dire che ero incapace di stare ferma ad ascoltare una lezione frontale. Riflettendoci, era abbastanza chiaro che ci fosse un pattern preciso nell’estremismo dei miei voti scolastici: dall’1 nelle materie scientifiche in cui avevo evidenti difficoltà fino ai 10 nelle materie umanistiche in cui riuscivo a focalizzare la mia attenzione. Certo, questa situazione mi rendeva, comunque, non-bocciabile e questo mi ha permesso, almeno, di non perdere anni di scuola. All’epoca però, il tabù che riguarda neurodivergenze e salute mentale era molto più forte rispetto ad ora, non c’erano gli studi e le ricerche di adesso, non c’era (almeno nella mia esperienza personale) quel briciolo di attenzione in più, almeno nel sistema scolastico, per individuare quelle problematicità. Si passava per svogliat3, disattent3, poco studios3 e si dava poco o nessun aiuto a persone con alcune difficoltà oggettive.
Come sono cambiate le tue relazioni sociali dopo la scoperta e la diagnosi?
Non saprei. Anche se non ho problemi nel descrivere la mia condizione, i miei rapporti sociali più stretti non sono cambiati molto. Questo non è stato sempre un bene, perché, in realtà, differentemente da come accade per un coming out, qua ci si aspetterebbe (e dovrebbe esserci) un certo tipo di cambiamento portato all’ascolto e al trattare con più attenzione la persona. In generale, però, in certi “safer places”, come quelli queer, ho trovato più apertura mentale e soprattutto attenzioni particolari per la mia condizione. A livello di relazione romantica/sessuale sono sempre stata aperta e chiara su quello che sono e per fortuna non ho trovato mai un vero rifiuto. Al massimo, una difficoltà oggettiva nell’altra persona nel gestire certe situazioni di crisi ma comunque ho sempre trovato persone aperte e disposte ad ascoltare i miei bisogni.
A che età l’hai scoperto/hai avuto la diagnosi?
L’ho scoperto, o meglio, capito, a circa 22 anni ma non mi sono attivata all’epoca per una diagnosi ufficiale. Nonostante tutt3 le psichiatr3 e psicologh3 che ho avuto sono concordi nella diagnosi, non ho una diagnosi ufficiale perché quelle per le persone over 25 sono una cosa molto nuova in Italia ed esistono poch3 professionist3 in grado di redigerla ufficialmente e ancora meno nel pubblico. Attualmente ho iniziato comunque il percorso per averla e sono in attesa di un pezzo di carta che lo certifichi; in generale prendo da anni degli psicofarmaci che tengono a bada alcuni sintomi e mi permettono di vivere certe situazioni sociali che prima erano, più o meno, invivibili.
In che modo ti sei sentitə discriminatə all’interno della comunità (o all’esterno) in base alla tua neurodivergenza?
Più che discriminata ciò che capita di continuo è che le mie esigenze vengano ignorate o prese poco in considerazione. Spesso, anche nei safer places come quelli lgbtqia+, o in vari eventi, si fa poca attenzione a ciò che potrebbe creare una situazione di overwhelming per la persona neurodivergente o che potrebbe triggerarla. C’è poca attenzione ma soprattutto poca informazione: se ne parla troppo poco e male per smontare questo tabù che vige su tutto ciò che riguarda, diciamo, la “sfera mentale” della persona. Per quasi tutt3 è molto più facile rapportarsi con una persona che ha un problema fisico, evidente o meno, rispetto al rapporto con una persona neurodivergente. Ancora parliamo di persone che “soffrono” di autismo…
In che modo l’essere neurodivergente ha o non ha avuto un impatto all’interno delle tue relazioni (sociali, amorose, etc)…
Se più o meno è rimasto tutto lo stesso nelle relazioni amicali/platoniche, sinceramente ha avuto un impatto positivo nelle relazioni romantiche, da quando sono aperta su questo tema. Ho sempre trovato una più particolare attenzione e nessuna discriminazione a riguardo. Riuscire a comunicare in maniera sana le proprie esigenze, cosa di cui non ero capace anni fa, facilita le cose a chi, pur non capendo, decide di starti accanto. Nessunə ha la palla di vetro per capire cosa gira nella tua testa e anche se a volte è veramente difficile, esprimere i propri bisogni è l’unico modo per evitare che partner o amich3 ti facciano del male in modo non intenzionale.
In che modo pensi il mondo, o almeno la comunità, dovrebbe comportarsi nei confronti delle persone neurodivergenti?
A livello sociale, servirebbe molta più informazione a riguardo. Ormai le diagnosi di ADHD, autismo e varie DSA, stanno aumentando a dismisura, anche solo perché c’è più informazione e anche, in parte, rappresentazione (per quanto molte volte troppo stereotipata) che, finalmente, sta dando qualche picconata a questo tabù e a quello dell’affidarsi a psicologh3 e psichiatr3. Si sta anche iniziando, per fortuna, a smontare un certo tipo di linguaggio, ad esempio abbandonando l’uso de “la sindrome di Asperger” o la distinzione tra persone neurodivergenti e autistiche “ad alto o basso funzionamento”. E di questo un po’ ne sono grata, perché per anni anche io (e secondo la mia psichiatra) rientravo nella categoria “ad alto funzionamento”, cioè, in realtà, delle persone neurodivergenti che hanno, in una certa maniera, meno bisogno di supporto esterno nella vita di tutti i giorni. Questa è comunque una distinzione discriminatoria che si sta superando e che però viene ancora usata, purtroppo.
Cosa dovrebbe cambiare, all’interno dei nostri spazi, per accogliere le persone neurodivergenti nel miglior modo possibile?
Nella comunità, all’interno dei nostri “safer places” o negli eventi sociali con molta gente a volte basterebbero anche piccole cose come mettere a disposizione degli stimming toys, delle cuffie o tappi per le orecchie o creare uno “spazio di decompressione”, una sorta di quiet room quando c’è troppo caos e la persona in questione è triggerata o si sta sentendo poco bene. È sempre importante, poi, il consenso nel chiedere alle persone di essere toccate o abbracciate e ovviamente un approccio attivo all’ascolto nei confronti delle esigenze altrui. Durante eventi pubblici, dibattiti o gruppi di ascolto, ad esempio, è fondamentale sottolineare un “trigger warning” quando si sta per parlare di un argomento potenzialmente triggerante per le persone, non solo neurodivergenti ma anche “traumatizzate”. In questo modo, ognun3 può decidere di allontanarsi per evitare di stare male o anche chiedere di cambiare argomento, se possibile. Tutti questi sono strumenti utili per aprirsi alle possibili difficoltà delle persone neurodivergenti, autistiche o con problemi legati alla salute mentale e che altre associazioni e posti (soprattutto fuori dall’Italia) iniziano a fare.
Visto l’aumento delle diagnosi di ADHD e dello spettro autistico per persone all’interno della comunità (soprattutto trans e non binaria), pensi ci sia una correlazione?
Non so se ci sia, scientificamente, una vera e propria correlazione ma è sicuramente un dato il fatto che siano in aumento le persone trans/non binarie che rientrano nello spettro autistico o dell’ADHD. Rispetto al passato, adesso gli studi parlano non solo di genetica ma anche di impatto ambientale come fattori nello sviluppo dell’ADHD. Quindi l’intersezione tra varie situazioni soggette a discriminazioni e il minority stress, oltre a vissuti traumatici (più o meno correlati) può essere, probabilmente, un fattore in questa equazione.
Qual è la tua condizione di salute mentale?
La mia diagnosi è quella di un disturbo bipolare atipico (detto tecnicamente anche come “non specificato”), disturbo depressivo maggiore e disturbo narcisistico della personalità di tipo depresso. In sintesi, condizioni legate all’instabilità dell’umore, dovuti anche a vari traumi.
Com’è stato spiegare all3 tu3 partner la tua condizione di salute mentale?
Sono passati ormai molti anni da queste diagnosi ufficiali e spiegarlo è sempre un po’ difficile. Molte persone neurotipiche o semplicemente, diciamo, “non-depresse” non riescono a capire quanto questi disturbi possano essere invalidanti. Nelle relazioni passate è stato molto difficile far capire questo ed anche che per questi disturbi non esiste una “cura”: esiste solo la terapia e non è facile da gestire. Non sempre ho avuto partner in grado di aiutarmi in questo o capaci di cogliere la difficoltà nel dover seguire una terapia psicologica e psichiatrica ben precisa. Ancora, intorno a me, so di relazioni in cui uno dei partner è depressə e l’altrə non riesca a capire la condizione perché essa non è fisica ma solamente mentale. Questa situazione si ripropone molto spesso, a causa di vari tabù sulla salute mentale a discapito di malattie fisiche, che sono visibili e riconoscibili.
In che modo questa impatta i tuoi rapporti? Quanto impatta?
Non è facile né spiegare né gestire le due fasi del bipolarismo, quella maniacale e quella depressiva, ed è molto difficile stare accanto a una persona che ha un disturbo depressivo maggiore. Impatta molto nei vari rapporti, sia amicali che romantici e/o sessuali. La salute mentale (e la terapia) può influire ad esempio, parlando di sessualità, sulla libido o comunque comportare cambi di personalità anche evidenti in certi casi. Questo può essere causato sia dal disturbo che dalla gestione impropria della terapia ed è difficile da capire per chi non prova queste stesse sensazioni, quella stessa invalidità portata dalla depressione o quella mania onnipotente tipica del bipolarismo. Personalmente ho perso varie persone, chiuso tanti rapporti per un motivo o per l’altro: o per la malagestione della mia terapia o per la scarsa capacità di comprensione dall’altra parte.
Si può parlare di coming out anche riferendosi alla salute mentale? Quali sono le similitudini e quali le differenze?
Direi di sì. Parlare dei propri disturbi mentali è veramente difficile, sia a causa del tabù e dello stigma, sia a causa della scarsa comprensione di come funzioni il cervello e le emozioni umane. Proprio per questo penso siano fondamentali l’educazione sentimentale (insieme a quella sessuale, alle differenze e al consenso) nelle scuole e soprattutto un piano nazionale per l’assunzione e la formazione di psicologh3 e psichiatr3. Le persone, in generale, possono spaventarsi davanti alla “rivelazione”, a questo particolare “coming out”. Penso che le similitudini siano proprio nelle reazioni delle altre persone a riguardo, che siano di pena, di paura o di ignoranza e di allontanamento, cose che accadono anche con il coming out a livello di orientamento sessuale o identità di genere. Sicuramente c’è uno stigma e un tabù diverso e le persone depresse non sono, ovviamente, perseguitate o discriminate come accade invece per la comunità lgbtqia+. Il grande tabù, però, rimane quello del suicidio, in un paese fintamente laico come l’Italia. Non se ne può parlare, non se ne parla, si dice sottovoce ed è veramente difficile relazionarsi con le persone quando sei una “survivor”, quando sei una persona che lotta o ha lottato con la depressione e che, per un motivo o per l’altro, è finita nel loop dell’autolesionismo o ha provato concretamente a togliersi la vita. Proprio per questo, io cerco di essere una persona il più aperta possibile su questi temi, per quanto facciano male: ho vissuto tre ricoveri psichiatrici a causa della mia depressione e vari tentativi di suicidio. So, a livello esperienziale, cosa significa vivere questa condizione, so quanto sembri un tabù insormontabile, so cosa vuol dire omertà, svilimento e invisibilizzazione. Ed è importante che se ne parli, se ne parli il più possibile: non per “normalizzare” nulla ma per sensibilizzare le persone sulla propria salute mentale e per quella dell3 propri3 car3.
Senti che l’argomento sia trattato col giusto peso al giorno d’oggi? Com’è cambiato negli ultimi anni?
C’è un’apertura diversa e un diverso modo di parlare dell’argomento negli ultimi anni, grazie ai social e alle nuove generazioni. Solo 10 anni fa, quando io andavo al liceo, era un tabù intoccabile: non se ne poteva parlare, non c’erano molte diagnosi e la mia scuola non aveva neanche uno sportello psicologico tra i propri servizi. Adesso se ne parla ma non penso se ne parli abbastanza e con il giusto peso. L’apertura data dai social si porta dietro la leggerezza con cui si parla di malattie e disturbi, come la depressione, l’ansia, il bipolarismo, la schizofrenia, etc. Spesso se ne parla come se lo fossimo tutt3, ansios3 o bipolari, etc, riferendosi a situazioni che invece riguardano una semplice tristezza o momentanei stati d’ansia, niente a che vedere con una malattia riconosciuta e invalidante come la depressione maggiore. Purtroppo, anche fenomeni come l’autolesionismo o altri legati ai disturbi alimentari diventano virali oppure si creano subforum o gruppi sui social (ad es. telegram, reddit, tumblr) in cui la gente non solo si scambia informazioni (spesso errate) ma ci si spinge a vicenda nel continuare queste dinamiche molto pericolose.
Ti senti accolta dall3 partner riguardo questo tema?
In questo momento, assolutamente sì. Purtroppo o per fortuna, ho avuto varie partner depress3 o con disturbi psichiatrici e quindi ho quasi sempre trovato una connessione e una comprensione in questo senso. L’altro lato della medaglia è che è molto difficile stare dietro ad una persona con vari problemi legati alla salute mentale… se anche tu, in qualche modo sei sulla stessa barca. Ma insieme è sempre meglio che da sole.
E dalla comunità?
Direi di sì. Anche se, come dicevo, l’invalidità portata dalla depressione e il suicidio rimangono ancora un enorme tabù anche all’interno della comunità.
Cos’è il minority stress? Come impatta sul tuo essere parte della comunità e nell’avere problemi di salute mentale?
Per minority stress si intende il livello di stress e ansia dovuto all’appartenere a uno o più gruppi marginalizzati e oppressi. Sicuramente ha un grande impatto su di me e ricordo come anche, quando ho ricevuto la relazione di incongruenza di genere, risultasse un valore (dato dai test) molto alto. Io sono una persona trans non binaria che ha iniziato la terapia ormonale, sono bipolare, depressa, narcisista e con l’ADHD. Sono pansessuale, poliamorosa, kinky. Preferisco pensare che, essere al centro di così tante intersezioni, mi renda una persona che può capire e che può essere, se non di riferimento, almeno di aiuto per le altre persone che vivono alcune delle mie condizioni. Nel mondo di oggi, nella società italiana, fuori dalla nostra bolla queer, non mi sento per niente tutelata, purtroppo, soprattutto per quanto riguarda l’approccio col mondo sanitario. Un approccio che, però, per me, è cronico, continuativo, necessario da sempre. Affrontare ogni volta ospedali, medich3, professionist3 non preparati sui temi lgbtqia+ è sempre una sfida e a volte si finisce per restare a casa e rinviare quella visita… Trovare psicologh3, ma soprattutto psichiatr3 format3 e che riescano a metterti a tuo agio è veramente difficile quando, oltre ad avere dei disturbi psichici, sei anche parte della comunità LGBTQIA+.
Le tue relazioni romantiche/platoniche fungono da rete di supporto riguardo alla tua salute mentale? Se sì, in che modo?
Sì, assolutamente sì. Le mie relazioni, sia romantiche che platoniche, hanno creato una rete di supporto fondamentale e mi hanno letteralmente salvato la vita più volte. Sia mettendomi al muro e facendomi riconoscere l’abisso in cui stavo finendo sia rendendosi disponibili sempre come una potenziale spalla per piangere o un orecchio per ascoltare. A volte, anche chiamando un’ambulanza, quando quella rete, da sola, di più non può fare. Questa però si può creare se, anche qui, c’è una comunicazione, un’apertura da tutte le parti: dove il tabù è più forte, è più difficile parlarne e di conseguenza è complicato costruire una rete di persone che anche solo siano a conoscenza dei tuoi problemi.
Quali sono fonti valide sul tema della salute mentale e in particolare sulla tua problematica?
Consiglierei di leggere “L’uomo che trema” di Andrea Pomella, un romanzo autobiografico basato sulla depressione dell’autore. Ci sono poi molte persone online che fanno divulgazione ma starei molto attent3 a cosa si legge.