Per tutta la vita fertile le donne si sentono chiedere: “Ma quando lo fai un figlio? Come mai non hai un figlio? Non vorresti un figlio?”. A parte la violenza della domanda – e se non è possibile, se non si riesce, se mancano i mezzi? – ma perché dover subire un’intromissione simile? Non volerlo è uno stigma. Chiedere il motivo è un’invasione. “Guarda che poi lo vorrai” è persuasione. E’ un tema biologico, etologico, legato agli organi riproduttivi, antropologicamente declinato al femminile. Ma ancora oggi operare una distinzione di genere in questo approccio significa fare del sessismo.
Qualche anno fa andai a portare un soggetto ad un produttore insieme a un bravo sceneggiatore, un amico a cui avevo chiesto una mano per lo sviluppo, ma che non sapeva niente del progetto: insomma, era lì per accompagnare me. Il produttore si rivolse sempre e solo a lui durante l’incontro. E sapete perché? Facile. Perché ero una donna.
Da lì è nato il mio primo corto “Dietro un grande uomo” (visibile qui ). Ho sempre e solo chiesto di essere considerata prima un essere umano e poi una femmina. Una persona prima di un genere. Qualche volta ci sono riuscita, non sempre. L’età aiuta: dopo i 50 si diventa praticamente maschi, baffetti che aumentano e passione per blazer e mocassini compresa. Ma per tutta la mia vita fertile mi sono sentita chiedere quando mi sarei riprodotta, per fortuna non dai consanguinei, che ben sapevano con che elemento avevano a che fare. Quando lo fai un figlio? Come mai non hai un figlio? Non vorresti un figlio? No, grazie. A parte la violenza della domanda – e se non potessi, non riuscissi, non avessi i mezzi? Perché dovrei parlarne liberamente? Non lo vuoi? Stigma. Perché non lo vuoi? Invasione. Guarda che poi lo vorrai. Persuasione. Eppure, nessuno va in giro a chiedere come funzionano le gonadi maschili: “Ehi, tutto bene lì sotto? Mi raccomando belli tosti!”.
Sì, d’accordo, in Italia la crescita demografica è zero. Ma è una piaga sociale, non femminile. Dipende dalla mancanza di garanzie, dalle manovre finanziarie sempre a scapito delle madri, dalla scarsa occupazione: una giovane donna finisce l’università, ma prima di entrare davvero nel mondo del lavoro, ci impiega quindici anni, fertili, quelli giusti per riprodursi, e allora lo fa tardi, spesso ricorrendo all’aiuto della scienza, qualche volta da sola. Se può permetterselo.
Nel nostro paese, i figli li fanno quelli che hanno molto da dare o niente da perdere. Io, onestamente, un figlio non l’ho mai desiderato. Così come l’esperienza della gravidanza: mai sentito quel buco nella pancia all’altezza dell’ombelico. E lo dico amando moltissimo i bambini: degli altri. Sono un’ottima zia: d’altronde Mary Poppins, single e childfree, piena di istinto materno, è sempre stata il mio role model.
Non è una questione di egoismo, o comunque non solo: ritengo che l’egoismo sia un mio diritto. Non ho mai voluto scambiare le mie serate divano-cane-vino con quelle abbracciate a un frugoletto. I viaggi, le notti sui progetti, finire un libro, cercare su internet lo scibile sulle orchidee, scopare, non dormire, consolare cuori infranti, infrangermi il cuore: non li ho mai messi al posto del calore di un figlio. Non sono capace, non è per me e desidero potermi assomigliare senza vergognarmi.
Lo so essere madre è meraviglioso: nessuno metterebbe in gioco la sua intera esistenza per una esperienza meno che incredibile per la maggior parte degli esseri viventi. Ma per qualcuno non lo è: per dire, la femmina di quokka, un simpatico marsupiale australiano, se in pericolo, getta i figli in pasto ai predatori.
La maternità è parte di una serie di scelte diverse per ciascuno di noi. Io amo, amo, amo viaggiare in camper: non pretendo che lo amino tutti. E’ una faccenda che riguarda l’essere onesti con se stessi. E poi non tutti i figli nascono per amore o desiderio: alcuni vengono per caso, altri per un progetto, altri ancora per qualche strategia; ci sono i figli della riparazione emotiva, i figli-ricatto, i figli-giocattolo, quelli nati da violenze, soprusi, ignoranza, incoscienza. I figli sono un impegno difficile che va assunto responsabilmente – come guidare dopo aver bevuto – misurandosi con dei veri desideri: se soltanto si riuscisse a dire “non fa per me” forse avremmo meno problemi, incidenti, reati innominabili. Più genitori consapevoli, più figli felici… forse, nemmeno questo è garantito. I figli non sono una tappa obbligata dell’evoluzione umana. Nemmeno quella di una femmina della specie. Perché a un maschio difficilmente si domanda “quando ti riproduci?”: è un tema biologico, etologico, legato agli organi riproduttivi. Perciò è stato antropologicamente declinato al femminile. Ma oggi, anche operare una distinzione di genere in questo approccio significa fare del sessismo. Abbiamo fatto molto per progredire dal mondo animale (non sempre con grandi risultati, a parte la mamma quokka): la coscienza, tuttavia, è uno dei nostri più grandi successi in materia di evoluzione. E la coscienza non ha genere. Se in coscienza non desidero vivere l’esperienza della maternità non posso essere costretta a vedermela con il pregiudizio di chi vorrebbe essere rassicurato sulla mia naturale posizione nella società, nell’esercizio delle mie funzioni biologiche, solo perché, se dovessi occupare altri posti potrei diventare una minaccia. E comunque, le mie funzioni rientrano nelle mie scelte: anche se ho un utero non sono obbligata ad usarlo. Ho un utero a salve, diciamo.
Sono certa che sarei stata una brava madre, se mi fosse capitato, perché mi impegno moltissimo, sempre, in tutto: e non mi sto sbrodolando, è una forma nervosa. E sono certa che nello stesso tempo avrei rinunciato ad alcune parti importanti di me che per egoismo, immaturità, paura, assenza di desiderio, ma anche per passione verso la vita, il lavoro, il mio percorso, mi hanno portata fino qui, ad essere quella che sono. E che voglio continuare ad essere.
Sento col passare del tempo il desiderio di trasmettere il mio know how e la mia piccola fortuna in scatola, ma ci sono migliaia di possibilità per farlo. La maternità, sempre che di questo si tratti e non piuttosto di un profondo senso di condivisione, si estrinseca in molti modi: avendo cura, insegnando, aiutando, sostenendo. E neppure questa forma ha una natura ineluttabile e universale. Si tratta pur sempre di una scelta coraggiosa e piena di fiducia in un mondo faticoso e controverso. Davvero ve la sentite di giudicarla? Noi, più che genitori, dovremmo decidere che tipo di persone vorremmo essere, madri o non madri è secondario. Come diceva Vittorio Arrigoni: “restiamo umani”. Per questo non c’è tempo, non c’è condizione, non c’è scadenza. Per dire, ora sono in menopausa. Ma questo è un’altro stigma.
[Foto di Luca Dugaro]