C’è un sostrato di esperienze comuni a molte persone LGBTQIA+ che si sono trovate a crescere in Italia a cavallo tra i due millenni. Se non l’avete vissuto direttamente, provate a immaginare cosa abbia voluto dire per una persona queer sperimentare l’adolescenza in un paesino di provincia nei primi anni 2000, magari nel sud Italia. Immaginate il cortile assolato di una scuola media durante la ricreazione, quella sensazione di essere nel posto sbagliato, sentirsi diverse, emarginate, isole solitarie in un oceano ostile. Siamo partite da lì per una quest alla ricerca di similarità, senza bussola, guidate dal desiderio di appartenenza e comunità. Ci siamo spinte a cercare rifugio in spazi fantastici in cui poterci ripensare, in cui fare esperienza di mondi diversi, di vite alternative, immaginare e immaginarci, creare e trasformarci, e attraverso questo viaggio giungere a una più profonda conoscenza delle nostre stesse identità. Questi spazi si aprivano ad esempio nella letteratura, in particolare nel genere fantasy, nei fumetti e nei videogiochi. Fu poi l’avvento di internet a cambiare radicalmente le carte in tavola: la rivoluzione tecnologica avrebbe portato le nostre solitudini analogiche a sfociare in un mare virtuale in cui scoprire arcipelaghi di relazioni basate sui nostri interessi. Altre persone, sole come noi, a distanza di chilometri, che si rifugiavano in spazi virtuali per trovarsi, per giocare, per tirare un sospiro di sollievo da quello che all’epoca non avevamo strumenti per chiamare minority stress.
Allora come oggi, essere queer si configurava come una condizione ideale per avvicinarsi a quella che definiamo cultura nerd. A scuola eravamo frocie, ricchione, checche (consapevoli che questo elenco di ingiurie non sia esaustivo di tutte le esperienze di bullismo subite dalle persone queer), ma eravamo anche sfigate, secchione, perdenti, e non tutte siamo sopravvissute alla pressione del bullismo e dell’ingiuria. Ma è proprio nel percorso di risignificazione dell’insulto che appare evidente il collegamento tra queer e nerd. Entrambe le parole sono andate incontro a un processo di rivendicazione da parte di chi le subiva come insulti denigratori e che, attraverso l’uso performativo, ne ha fatto invece strumenti identitari, spogliati della loro capacità offensiva. Si riconduce dunque allo sguardo patriarcale, eterocisnormante e capitalista la comune matrice di questi due mondi di alterità, entrambi impostati sul rifiuto di aderire a un modello binario e preimpostato di mascolinità o femminilità, a un ruolo di genere che dovesse regolare interessi e giochi fin dall’infanzia, agli ideali obbligatori di forza per i ragazzi e gentilezza per le ragazze, al machismo a tutti i costi. In opposizione a questo sguardo, oggi noi possiamo dirci fieramente frocie, fieramente queer e fieramente nerd.
È interessante notare come la rappresentazione nei media della queerness e della nerdiness abbia seguito strade parzialmente parallele, seppur con esiti diversi. Personaggi nerd erano inizialmente inseriti in prodotti di massa solo in quanto topoi comici, tutti caratterizzati da occhialoni spessi, impacciataggine, stralunati perché dotati di un’intelligenza fuori dalle righe. Pensiamo a Steve Urkel in Otto sotto un tetto, eponimo del nerd, a Dexter nel suo laboratorio, a Velma Dinkley in Scooby Doo (di cui recentemente è stata confermata l’omosessualità), ma anche Milhaus nei Simpson e la stessa Lisa, per poi arrivare a personaggi più complessi come Willow Rosenberg in Buffy l’ammazzavampiri, fino alle rappresentazioni quasi celebrative (per quanto parodistiche) della nerdiness in The big bang theory o Stranger Things. La cultura nerd si è fatta quindi strada nell’immaginario mainstream, arrivando quasi a dominarlo, e questo è stato possibile probabilmente anche perché chi scriveva personaggi nerd era a sua volta nerd o aveva sperimentato nella vita quel tipo di sottocultura. Non si può dire altrettanto per quanto riguarda le possibilità di autorappresentazione LGBTQIA+ (o di genere), laddove il mondo della produzione culturale è ancora controllato da registi, autori, scrittori, game designer che sono uomini bianchi cisgenere, eterosessuali, senza disabilità e borghesi.
Oggi sono i film supereroistici a incassare di più ai botteghini, le serie TV fantasy sono le più viste, le fiere e le convention dedicate a fumetti e giochi sono esplose, eppure quella sottocultura nerd che aveva in sé un’idea seminale di comunità, basata sulla solidarietà tra persone emarginate, sembra essersi persa nei gorghi del mainstream, distorta e omologata da un modello di nerd mercatabile e con un grosso potere di spesa. Purtroppo anche le comunità nerd ripropongono modelli tossici mutuati dalla società e ne hanno addirittura inventati di propri, soprattutto nel contesto della comunità giocante. Come persone LGBTQIA+ possiamo essere soggette a discriminazione e violenza anche all’interno di contesti nerd e ludici, ma è proprio nel potenziale aggregativo del gioco che riconosciamo una possibilità di creare per noi spazi di comunità e di socialità.
Il gioco, come forma di espressione culturale, ci permette di raccontare e vivere le nostre storie in modo diverso dai libri o dai film, è un’attività collettiva, sociale e interattiva che favorisce immedesimazione ed empatia. Le esperienze scaturite nel gioco sono condivise e ci consentono di raccontare storie ogni volta diverse, co-costruite e risultanti dell’apporto di ogni partecipante. Nel gioco troviamo l’opportunità di vestire i panni di personaggi che non siamo noi o che magari non siamo ancora, di sperimentare esplorando i generi, le identità, le relazioni, le emozioni e persino i conflitti. È necessario dunque puntare a costruire spazi di gioco che siano il più sicuri possibile per tutte le persone che li attraversano, che siano spazi di libera espressione, privi di giudizio, in cui poter giocare senza paura di incorrere in situazioni che ci facciano sentire in disagio o in pericolo; spazi in cui ciascuna si faccia carico dell’esperienza e del benessere di tutte le altre persone.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito in Italia all’aumento del numero di gruppi ludici nati dall’iniziativa di persone LGBTQIA+, anche all’interno di associazioni più grandi che si occupano di attivismo. Ci auguriamo che sempre più gruppi facciano del gioco una pratica politica e che si rivolgano a questa attività umana in modo consapevole, promuovendo spazi più sicuri, giochi che offrano una buona rappresentazione, che raccontino storie uniche e aiutino a diffondere una cultura ludica rispettosa di tutte le diversità.
Se siete interessate ad approfondire il tema del gioco come strumento di impatto sociale e politico per le persone LGBTQIA+, vi consigliamo di leggere il nostro Manifesto Rosa del Gioco. Si tratta di un documento politico in cui trattiamo di identità, rappresentazione, decolonizzazione degli immaginari, accessibilità dei giochi e degli spazi di gioco, uso consapevole del linguaggio di genere in ambito ludico, safer space e tanto altro.