La scoperta del virus dell’immunodeficienza acquisita umana (Hiv) compie in questi giorni 40 anni, ed è un compleanno davvero triste, perché a oggi non esiste ancora un vaccino e le prospettive future non sembrano promettere nulla di buono. Proprio il 23 aprile 1984, infatti, il segretario del Dipartimento della Salute degli Stati Uniti, Margaret Heckler, annunciava che il dottor Robert Gallo e i suoi colleghi del National Cancer Institute avevano trovato la causa dell’Aids, un retrovirus che etichettarono come HTLV-III. Heckler annunciava inoltre lo sviluppo di un test diagnostico del sangue per identificare l’HTLV-III ed esprimeva la speranza che “entro due anni” sarebbe stato prodotto un vaccino contro l’Aids. Purtroppo, col senno di oggi, sappiamo che quella speranza medica è rimasta del tutto disattesa.
Aut ha pensato che fosse utile fare il punto sulla situazione dell’Hiv e delle ipotesi di vaccino, considerando che questo retrovirus ha nel frattempo portato via alcune delle menti più brillanti di due generazioni. Sebbene oggi chi si trova a combattere con l’Hiv ha il privilegio – se vive nel mondo occidentale – di non morirne più e di poter prendere gratuitamente farmaci salva-vita che rendono la malattia sostanzialmente innocua e persino non trasmissibile, rimane il fatto che infettarsi significa diventare dipendenti da un farmaco da assumere ogni giorno, per il resto della propria vita. Su questo, abbiamo intervistato la dottoressa Caterina Fimiani, medico specialista in Allergologia e Immunologia clinica presso il Policlinico Umberto I di Roma.
Stando all’ultimo saggio di Alessandro Aiuti, La cura inaspettata. L’HIV da peste del secolo a farmaco di precisione, è oggi possibile utilizzare come vettore l’involucro del virus HIV per guarire malattie genetiche. Secondo lei sarà mai possibile utilizzare il virus HIV depotenziato per guarire dall’HIV stesso i pazienti che sono sieropositivi?
Per rispondere subito alla sua domanda con una mia personale opinione, credo che nell’ambito della medicina di precisione e delle nuove tecnologie geniche sarà possibile in un prossimo futuro immaginare una terapia di questo tipo mirata al trattamento dell’infezione da Hiv. D’altro canto, sono attualmente in corso alcuni trials che sfruttano questo tipo di metodiche.
Ma andiamo con ordine. In primo luogo, facciamo chiarezza su cosa sia un vettore virale. Possiamo dire che il vettore virale è la modalità attraverso la quale può essere trasportato del materiale genetico. In generale i vettori virali sono virus geneticamente modificati al fine appunto di consentire la trasmissione di determinati geni. I vettori virali di cui lei parla sono vettori denominati lentivirus a causa della loro capacità di replicarsi lentamente; sono derivati dal virus Hiv e impiegati nella terapia genica di diverse malattie data la loro capacità di integrarsi con efficacia nel genoma ospite. Ricordiamo che la terapia genica si basa sulla capacità di modificare il genoma di una cellula target, inserendo nuovi geni o sostituendo o inattivando geni che causano malattie. Questo tipo di tecnologia è attualmente utilizzata in diverse terapie geniche attualmente approvate in Europa per malattie genetiche rare. Dopo questa piccola premessa, torniamo all’oggetto della domanda. È possibile utilizzare questa tecnologia per curare l’Hiv? Attualmente ci sono alcuni studi in corso che utilizzano terapie geniche nella terapia per l’infezione da Hiv. Uno di questi, ad esempio, utilizza linfociti T che sono stati geneticamente modificati per poter resistere all’infezione in pazienti il cui virus è sotto controllo e che stanno effettuando una terapia antiretrovirale. Tuttavia, tutti questi studi sono ancora in fase iniziale e ci vorrà del tempo per stabilire l’efficacia di tali approcci terapeutici nell’infezione da Hiv.
Dal 2006 divenne disponibile in Italia la prima terapia con una sola pillola al giorno e oggi ve ne sono diverse varianti. Dal 2022 è disponibile in Italia una terapia a base di due farmaci antiretrovirali long-acting: la somministrazione viene fatta in ospedale ogni 2 mesi attraverso una doppia iniezione intramuscolare, e credo che questa terapia sia disponibile anche presso il suo policlinico Umberto I di Roma. Nella sua esperienza di medico immunologo, quali sono i pro e i contro di queste due scelte? Quale terapia tende a suggerire lei ai suoi pazienti e per quale motivo?
Nel 2006 fu approvata nell’ambito della terapia antiretrovirale la prima co-formulazione in una compressa da assumere una volta al giorno nota a tutti con il nome di Atripla, per anni il “gold standard” della terapia antiretrovirale. Da allora numerose sono state le co-formulazioni che si sono avvicendate nel corso degli anni e attualmente le co-formulazioni racchiuse in una singola compressa quotidiana rappresentano la maggior parte delle terapie orali disponibili. Veniamo poi alle formulazioni long-acting da poco introdotte nel nostro armamentario terapeutico e disponibili presso i nostri ambulatori. Sicuramente questo approccio terapeutico permette al paziente di liberarsi dal pensiero quotidiano di dover assumere la terapia o di doverla portare con sé magari in viaggi di lavoro. Se le caratteristiche del paziente ne consentono la somministrazione, l’efficacia terapeutica è assolutamente sovrapponibile; dunque, la scelta della terapia orale o di quella iniettiva dipende spesso anche dalle preferenze personali del paziente come anche dalla possibilità di recarsi puntualmente in ospedale per effettuare la somministrazione. Ovviamente mentre la terapia long-acting implica inderogabilmente la presenza del paziente, la terapia orale può anche essere ritirata con delega da altra persona nel caso il paziente fosse impossibilitato a recarsi presso la farmacia. In ogni caso, generalmente informo sempre i miei pazienti su tutte le possibilità terapeutiche disponibili e se ne discutono insieme i pro e i contro in base alla situazione personale e lavorativa, in modo da garantire sempre ciò che è imprescindibile per il successo terapeutico, ovvero l’aderenza alla terapia.
È la domanda che le fanno più spesso: come siamo messi per il vaccino contro l’HIV? I nuovi vaccini a mRNA non potrebbero dare una mano? Come mai è così difficile trovare un vaccino per questo retrovirus?
A oltre 40 anni dall’identificazione del virus HIV-1, il vaccino per questa infezione rimane ancora una questione insoluta. Tanti sono stati i trials vaccinali che si sono succeduti nel corso degli anni ma sono tutti falliti. Fra gli ultimi, nel dicembre 2023 lo studio “PrEPVacc HIV prevention study” svolto in Africa su 1500 volontari è stato interrotto per inefficacia. Ma allora è lecito chiedersi se avremo mai un vaccino per Hiv. Una speranza è riposta nella tecnologia a m-RNA utilizzata come piattaforma vaccinale per l’infezione da Sars-Cov-2, le cui applicazioni nell’ambito di un probabile vaccino per Hiv sono attualmente in corso. Ma come mai è così difficile fare un vaccino per l’Hiv? Le ragioni alla base della difficoltà di sviluppare un vaccino per l’Hiv sono principalmente l’esistenza di molte varianti diverse del virus non solo nell’ambito di una stessa popolazione, ma anche in diverse parti del mondo a causa della sua estrema variabilità, l’assenza di immunità naturale nei confronti dell’Hiv e l’imperfezione dei modelli animali dove testare i possibili candidati vaccinali poiché l’infezione si sviluppa in modo diverso rispetto a quello umano. Pur tuttavia, numerosi sono gli sforzi che si stanno compiendo per un possibile vaccino, fra i quali lo studio clinico “HIV-CORE007” che si svolge all’istituto San Raffaele di Milano dove verrà valutato il vaccino denominato HIVconsvX, creato per una vasta gamma di varianti dell’HIV-1 e quindi potenzialmente applicabile ai diversi ceppi di continenti differenti.