“Era una prova di coraggio. Se decidevi di andare al Gay Pride – si chiamava ancora così – sapevi che quasi certamente ti avrebbero ripreso al TG e fatto foto per i quotidiani. Ed erano gli anni ’90, l’esposizione della persona non era quella dei social di oggi. Eravamo pochi a farlo, i più coraggiosi forse? Di sicuro quelli che non avevamo niente da perdere”.
Queste sono le parole che mi ha detto Luca qualche tempo fa e mi hanno portato indietro nel tempo, a quando partecipare a un Pride significava esporsi a rischi personali e sociali enormi. Significava dichiararsi. Perché se andavi al Pride significava una cosa sola.
Negli anni ’90, essere visibili durante un Pride era un atto di ribellione contro la società che ci voleva nascosti, una sfida contro chi spesso ci ignorava o, peggio, osteggiava. Era un gesto di liberazione e accettazione (parola che oggi suona come una bestemmia) di se stessi. Negli anni ’90, il Pride era principalmente una protesta, un grido collettivo per la visibilità e i diritti fondamentali. Partecipare significava esporsi per affermare la propria identità.
Quel 2 luglio 1994 a Roma io c’ero. Ero una giovane studentessa e quel corteo, che non c’era mai stato nel mio paese, nella mia città, mi giunse come un regalo che mi incentivava a credere sempre di più che quello che stavo facendo non solo andava bene ma era necessario. Fu per me una spinta di entusiasmo verso il mondo dell’attivismo, che poi ha segnato gran parte della mia vita.
Riuscite ad immaginare cosa possiamo aver provato quel pomeriggio andando verso Piazza SS. Apostoli senza avere la minima percezione di ciò che avremmo trovato? E ancora, cosa possiamo aver provato ritrovandoci tantissimi, inaspettatamente tantissimi, a guardarci tutti increduli con sorpresa, entusiasmo, commozione? Ma siamo davvero così tanti? Ma davvero anche solo per qualche minuto abbiamo potuto credere di essere soli? Di essere pochi? Di essere sbagliati?
Volevamo abbracciarci tutti, un abbraccio di solidarietà per tutti coloro che per arrivare fino a quel momento avevano patito. Un abbraccio di incoraggiamento per tutti noi giovanissimi che percepivamo forte l’importanza di quanto stava accadendo e di cui ci saremmo dovuti prendere la responsabilità. E molti di noi lo hanno fatto. Quel giorno abbiamo ricevuto tutti un’iniezione di forza che ci ha poi permesso di costruire tutto quello che è venuto dopo.
Io da allora quella piazza non l’ho mai lasciata ed è stato un privilegio negli anni a seguire poter contribuire al consolidamento di ciò che quella piazza rappresenta, fino al World Pride Roma 2000, fino all’Europride Roma 2011, fino ad oggi. Abbiamo ottenuto tanto. Tanto c’è ancora da ottenere. Il ruolo della piazza è tutt’altro che esaurito.
E allora ci siamo chiest*: com’è cambiato il pride negli ultimi 30 anni? È possibile che il suo significato politico, culturale e sociale si sia modificato? In meglio? In peggio?
Con GENDERAZIONI abbiamo voluto mettere in prospettiva il percorso che la comunità LGBTQIA ha fatto dal primo Pride del 1994. È l’occasione per riflettere su come il significato del Pride sia cambiato nel corso degli ultimi tre decenni. E per ripercorrere le diverse istanze evolute in base al contesto storico.
Sostenere il Pride 30 anni fa era un azzardo, un atto di coraggio. Oggi è un vanto, una cosa che ti definisce progressista (anche quando in verità non lo sei). Oggi il Pride vede una partecipazione di massa capace di attrarre l’attenzione mediatica e di sensibilizzare un pubblico sempre più vasto. Ma allo stesso tempo alcuni temono che il Pride possa aver perso parte della sua carica sovversiva.
Al di là di osservazioni e prospettive contrastanti, il Pride rimane un evento profondamente politico. Le battaglie per i diritti LGBTQIA+ non sono ancora concluse. I veterani del movimento ci ricordano l’importanza delle radici del Pride come protesta e lotta, mentre le nuove generazioni portano energia e nuove prospettive, utilizzando strumenti per amplificare la voce della comunità. E’ fondamentale che il Pride continui a evolversi senza perdere di vista le sue origini. Dobbiamo celebrare i progressi fatti, ma anche rimanere vigili e attivi nella lotta. Le sfide sono ancora molte. Solo attraverso un dialogo intergenerazionale, intersezionale e un impegno continuo possiamo garantire che il Pride rimanga quello che è da 30 anni: un potente strumento di autodeterminazione e conquista.