Il primo Pride fu rivolta. Fu una rivolta guidata da persone queer e trans* razzializzate, sieropositive, sex worker, working class, malate. La rivolta dello Stonewall Inn non è stata storicamente la prima insurrezione della comunità LGBTQIA+, prima ricordiamo il riot di Cooper Do-Nuts a Los Angeles e quello al Compton’s Cafeteria a San Francisco. Insorgevano contro decenni di repressione e violenza della polizia e dello stato, reclamando per sè le strade e le piazze. I primi pride avevano glitter e vestiti per fare colpo, ma presto si sporcavano di sangue sotto i colpi delle forze dell’ordine. La musica suonava probabilmente in sottofondo, ma perché la polizia aveva fatto irruzione durante una serata come altre.
Il primo Pride fu rivolta ed era espressione di una comunità ai margini guidata dalle persone trans* e dal genere non conforme. Le stesse che dopo aver ‘creato’ inconsapevolmente il Pride – perché era ed è una lotta per la sopravvivenza – sono morte in povertà. Sylvia Rivera con il cui volto e le cui parole si decorano magliette da merchandising ha lottato una vita ed è stata spinta al suicidio in seguito alle discriminazioni e alle delusioni, soprattutto dovute al movimento gay, che ha più volte preso le distanze dalle persone trans*, drag queen e di genere diverso. Nel 1994 sempre più arrabbiata per l’esclusione delle persone trans* dalla comunità gay, Rivera organizza a New York quello che definiremmo un ‘pride antagonista’, una marcia illegale oppositiva al pride istituzionale. Paradossalmente il Pride istituzionale festeggiava il venticinquesimo anniversario dei moti di Stonewall.
Oggi il Pride è stato depoliticizzato con una cancellazione delle sue radici trans*. Al contrario i Pride cosiddetti istituzionali sono dominati da uomini gay, cis, bianchi, borghesi, abili che hanno manomesso il significato intrinseco della favolosità trans* e l’hanno ricalibrata su lustrini, diet culture, grassofobia, corpi normati e un’esaltazione della ricchezza con brand multinazionali e carri sempre più grandi e sfarzosi. Questa cancellazione è una forma di violenza per chiunque scenda in strada per l’autodeterminazione e la dignità personale e collettiva. In un periodo come questo in Italia, a cui assistiamo a un’aspra lotta per la sopravvivenza della comunità trans* con attacchi politici e istituzionali ai percorsi di affermazione di genere, all’infanzia e adolescenza trans*, all’accesso ai farmaci e più ampiamente ai servizi sanitari, con un’altrettanta violenta retorica repressiva istituzionale, sarebbe ancora più importante ritornare alla rabbia, alla rivendicazione e all’autodeterminazione trans* come punto di partenza di ogni Pride.
Invece dai Pride istituzionali sono sistematicamente allontanate le persone militanti queer, trans*, lesbiche, bisessuali, razzializzate, sex worker che propongono modalità di attraversamento conflittuali e libere. Quelle modalità che non avranno dietro grandi sponsor, ma che hanno dalla loro la memoria, la storia e la lotta per la sopravvivenza. Dalla loro parte sono Marsha P Johnson, Sylvia Rivera e Stormé DeLarverie. I brand, le ambasciate, la polizia, le associazioni della polizia, i fabbricanti di morte, ogni tipo di emanazione del potere istituzionale repressivo non dovrebbe essere presente al Pride: è letteralmente quello contro cui siamo insortx nei moti di Stonewall, ed è il significato primo di questo momento di lotta e festa. Il primo pride fu rivolta contro la violenza istituzionale, dei generi, sessuale, razzista, classista, patologizzante e puttanofobica.
Attualmente parole ed espressioni come ‘pride’, ‘queer liberation’ e ‘queer visibility’ sono gli strumenti retorici principali nei discorsi colonizzatori del salvatore bianco europeo e nordamericano per misurare il livello di emancipazione di un popolo. Poco importa se anche in Europa, per esempio, i livelli di repressione della comunità LGBTQIA+ siano elevati e in Italia siamo sotto il livello minimo di dignità. Comunque sono i grimaldelli semiotici con cui i sionisti giustificano un genocidio in corso da più di settant’anni, con un pinkwashing che trasuda in post sui social media dove stringono bandiere arcobaleno su città in macerie e provocazioni come “prova a organizzare un Pride a Gaza”. Le persone queer e trans* palestinesi potranno organizzarne uno quando non sarà in atto una pulizia etnica, magari. Ora come allora noi persone queer e trans* bianche europee con i nostri documenti luccicanti dobbiamo essere dalla loro parte, abbiamo la responsabilità di prendere posizioni chiare, inequivocabili e urlare che non esiste orgoglio nel genocidio. Non è possibile alcun Pride con simboli sionisti associati a quelli della comunità lgbtqia+.
Attraverso il pinkwashing i sionisti dichiarano che il Pride a Tel-Aviv sia espressione della ‘queer liberation’ quando si tratta di una propaganda politica israeliana per occultare i propri crimini agli occhi della comunità lgbtqia+ e non. Serve a convincere l’osservatore bianco, al sicuro nella sua casa, con il suo cibo e l’acqua corrente, che non esiste un futuro per le persone queer e trans* palestinesi a casa loro e che il genocidio sia una forma di salvataggio. In questo momento purtroppo le persone queer e trans* palestinesi non hanno il privilegio di separare identità di genere e sessualità dalla violenza coloniale, la loro è una lotta basata sulla sopravvivenza a un colonialismo spietato.
Sarebbe importante portare le voci delle persone queer e trans* palestinesi nei nostri Pride, leggendone il comunicato o un estratto, portando in manifestazione le bandiere palestinesi e praticando quelle che sono le loro richieste:
– Rifiutate i finanziamenti israeliani, rifiutate le collaborazioni con tutte le istituzioni israeliane e aderite al movimento BDS.
– Sciopero: In silenzio o pubblicamente, rifiutate che il vostro lavoro sfruttato venga usato per mettere a tacere l’attivismo palestinese o per finanziare, sostenere e approvare la colonizzazione militare degli occupanti e il genocidio.
– Fate quello che le persone queer anticoloniali hanno fatto per decenni, riprendetevi la narrazione e stabilite i termini della conversazione, questa volta sulla Palestina. Quello che sta accadendo in Palestina è un genocidio. Israele è un‘occupazione coloniale. Quella palestinese è una società occupata e colonizzata militarmente. Secondo il diritto internazionale, Israele non ha il diritto di “difendersi” dalla popolazione che occupa, mentre l3 palestinesi hanno il diritto di resistere alla loro occupazione.
– Contattate l3 vostr3 rappresentanti locali per fare pressione affinché smettano di finanziare il genocidio e mettano fine al loro sostegno militare, diplomatico e politico a israele.
– Bloccate le strade. Organizzate un sit-in nella vostra stazione centrale. Interrompete il flusso del commercio. La condiscendenza è una scelta.
Attraversiamo questo mese del Pride riprendendoci spazi, luoghi e potere di parola. Mai come oggi in Italia e nel mondo lottiamo per la sopravvivenza. Viviamo sotto un governo fascista che perseguita le persone trans* e nonbinarie, le coppie omogenitoriali e lesbiche, che picchia studenti, ostacola il diritto all’aborto, nega una casa e un salario minimo a una popolazione sempre più povera, ma soprattutto è complice di un genocidio che osserviamo sempre più assopiti dagli smartphone. Sylvia Rivera, in un’occasione pubblica dichiarò che non è vero che contro le guardie aveva lanciato una scarpa col tacco: lei aveva sferrato una bottiglia di vodka. Un piccolo falso storico che fa sorridere nel suo tentativo di depotenziare la rabbia adornandola con una femminilità meno minacciosa. Nostra è la rabbia.