Ho lasciato Andria a ventidue anni, con una memoria organizzata per ricordi. Conoscevo Palermo dai lunghi racconti di mio padre, ne ammiravo l’entusiasmo, che poi è diventato anche il mio. Ho scelto di trasferirmi a Palermo perché ho scelto di risolvere e comprendere la mia identità, partendo dai ricordi del passato e dalle aspettative del futuro. È accanto al murales di San Benedetto il moro, a Ballarò, che ho baciato per la prima volta un ragazzo palermitano, mentre alcuni ragazzini incitavano un coro quasi indignato. A dire il vero, era la prima volta che baciavo un ragazzo senza il timore di essere offeso da qualche passante.
Partire da questo primo luogo mi permette di trascrivere – come fosse una cartina fisica – una lunga linea rossa intorno alle esperienze vissute e mancate a Palermo.
Al Cha – locale da tè a pochi passi dal Politeama – ho passato i miei primi mesi palermitani, nella speranza di fare qualche amicizia. In una guida online inserivano il Cha tra i locali più friendly della città. Mi accomodavo sul pavimento, sopra alcuni cuscini, leggendo un libro. Pretendevo che la gente si avvicinasse a me, che capisse il mio senso di smarrimento. Ma Palermo non è dovuta a darti nulla. Ed è questo il punto dal quale ho deciso di partire per cercare me stesso, in una città che ancora non conoscevo. Ho deciso di arrendermi a lei, alle sue meraviglie, alle sue strade sottili. In quel momento Palermo si è mostrata a me nella sua più totale nudità. È in questa risolutezza che ho iniziato a frequentare via Paternostro, una delle principali strade della movida palermitana, conosciuta anche per i suoi tanti locali friendly. Passavo Dal Barone alle Botteghe Colletti, fino a Goccio, chiacchierando con alcuni amici che nel tempo erano entrati nella mia quotidianità. Guardavo coppie di ragazzi passarmi accanto, azzardando un sorriso malizioso e pentendomene imbarazzato.
Molti luoghi sono associati al primo lavoro svolto a Palermo come giornalista. Ho scoperto luoghi mai visti prima, conosciuto meglio altri, come la street art a Ballarò, il ristorante Moltivolti in cui pranzavo con i miei colleghi.
A Palermo, per la prima volta, ho fatto parte di una comunità, di un pensiero collettivo di inclusione e rinascita. Ho colorato d’arcobaleno le panchine in piazza San Francesco di Paola, insieme ai volontari del quartiere, brindando poi da Basquiat ancora sporchi di vernice. Ho scoperto “La Migration”, lo sportello di Arcigay Palermo che si occupa di consulenza legale per i richiedenti asilo e che rappresenta oggi un punto di riferimento per l’integrazione, l’accoglienza e la socializzazione dei soggetti lgbtiqa+, esposti al rischio di esclusione sociale e familiare.
Ma nella mia Palermo esistono anche luoghi non fisici, visibili solo nella memoria, come il mio primo Pride. Il caldo afoso, le bandiere in movimento, gli abbracci di amici e i baci degli innamorati: sono queste le immagini che ricordo del mio primo Pride palermitano. C’è mia madre, la mia migliore amica, le bottigliette d’acqua a metà, gli insulti della gente accanto al Palazzo delle Poste, gli sputi, un’anziana che saluta sorridente dal balcone. A quel primo Pride associo un posto speciale nella mia mappa, che a questo punto assume sempre più i tratti di un diario aperto. In questo diario pieno di coordinate, molte strade si diramano verso alcuni eventi che fanno parte del mio vissuto in città. Al Sicilia Queer filmfest associo la conoscenza di un modo nuovo di pensare la sessualità, l’erotismo e le relazioni. Ogni edizione è una scoperta inedita, come è successo quest’anno con il film Passages di Ira Sachs, in anteprima al cinema De Seta. E mentre scrivo, ripenso al me di quasi dieci anni fa. Un pugliese, per metà tunisino, che lascia la sua terra per un posto tutto nuovo. Quali erano le mie intenzioni? Oggi, più che mai, comprendo di aver creato una famiglia di ricordi che rappresentano il più genuino dei riferimenti. Palermo è la mappa del mio corpo, della mia sessualità, della mia sensualità incerta e sarcastica.
[Foto di Giovanna Di Lisciandro]