Nel 1955 in Ragazzi di vita Pier Paolo Pasolini usava già il termine pischello. Un termine che si declina, a Roma, indifferentemente per il maschile, il femminile e tutto quel che c’è nel mezzo, come direbbe Jo Clifford. Quindi il termine non è nuovo, ma appartiene alla romanità popolaresca del Novecento che lo ha impiegato come sinonimo generico di gioventù, dimenticandolo per alcuni decenni e recuperandolo nel gergo attuale. Peraltro recentemente è stato riproposto anche dalla drammaturgia di Emanuele Trevi e dalla regia di Massimo Popolizio per il Teatro Di Roma nella stessa accezione pasoliniana, con grande successo e con l’impiego di tanta gioventù artistica.
Ma i termini, si sa, mutano pelle, forma, senso e significato a seconda dei cambiamenti che li circondano. Così, se oggi preferiamo l’utilizzo di pischellə, non lo facciamo per vezzo, bensì per una forma di rispetto e riconoscimento verso chi, appartenendo per diritto di nascita a questo attuale schieramento anagrafico, vive allo stesso modo l’esigenza di una identità non ristretta nei due argini del binarismo tradizionale… tutto quel che c’è nel mezzo, appunto, come direbbe Jo Clifford.
Ed è innegabile che persino nel mondo del teatro e dello spettacolo, financo in pochi anni, la gioventù abbia conquistato passo dopo passo spazi di creatività che hanno influenzato sottili mutamenti sociali.
Partenza da lontano: Sarah Bernhardt, attrice, mito e icona del teatro, la cui libera bisessualità non fu mai un mistero, divenendo parte integrante della sua identità pubblica. Nel 1869, appena venticinquenne, interpretò Zanetto, un ruolo maschile che fu il suo primo grande successo e che la portò, trent’anni dopo, ad approcciare persino la parte di Amleto. Punto di rottura per un’iconografia femminile tutt’altro che univoca – rintracciabile anche nel meraviglioso manifesto opera di Mucha – l’intraprendenza di Sarah fece da apripista per molte altre attrici del Novecento.
Per rimanere in tema iconico: da Greta Garbo a Marlene Dietrich, nonostante l’apparenza sofisticata, molte univano alla giovinezza una certa dose di spregiudicatezza identitaria e sessuale. Ebbero la sfrontatezza, per l’epoca, di indossare abiti di taglio maschile in occasioni pubbliche, anticipando una radicale trasformazione di forme nella moda nel Novecento.
Judy Garland, poi, entrò di diritto nell’Olimpo dello spettacolo – e della Comunità lgbtqia+ – a soli 17 anni interpretando Dorothy nel Mago di Ozdiretto da Victor Fleming. Per questo fu anche ispiratrice indiretta degli Amici di Dorothy e con la sua improvvisa scomparsa, presumibilmente, persino dei moti di Stonewall. Judy Garland pagò lo scotto del suo talento giovanile bruciando troppo rapidamente, e lasciando tuttavia un segno indelebile del suo passaggio intorno a sé.
Si potrebbe aggiungere all’elenco anche Mario Mieli, che all’epoca de La Traviata Norma aveva solo 24 anni e appena 29 al debutto nel monologo Mario/Maria al Teatro Cristallo di Milano. Giovane come le altre persone che, insieme a lui, parteciparono a quella stagione felice di incontro fra performance, teatro e lotta politica durata all’incirca un decennio, Mieli allora offriva un saggio già maturo – e forse poco compreso – dell’esigenza di una identità non polarizzata, anticipando il citato tutto quel che c’è nel mezzo di Jo Clifford. Lo faceva con la parola, certamente, ma anche con il corpo, con il gesto e con l’abito, sperimentando.
Lə Pischellə che oggi si confrontano con il mondo dello spettacolo scavano a loro volta, spesso con indiscutibile creatività, nel tema identitario cercando di rinnovare lo spessore, il volume e il carattere di ogni scelta di autodeterminazione. Lo fanno impiegando linguaggi trasversali in maniera sincronica, recuperando il passato per vivere il presente, mescolando arti e talenti: sperimentando, ancora. Certo, attualmente, ogni caso – e sono innumerevoli – esprime una singolarità.
Le scoperte geografiche di Marco Morana, ad esempio, autore appena trentenne al momento del debutto di questo copione, è stato uno degli spettacoli vincitori della prima edizione del Premio La Karl. Nel testo, elemento più rimarchevole, si combinano brani in prosa e in versi per i differenti momenti di confronto con la realtà e con i propri sentimenti. Scopo: scandagliare, analizzare e oltrepassare i limiti delle paure adolescenziali nella ricerca di sé. Protagonisti: Colombo e Magellano, alter ego dei due giovani scolari, interpretati teneramente da Michele Balducci e Daniele Gattano. Un viaggio umano ed emotivo nell’esplorazione del sentimento che li avvicina e nella scelta, ciascuno per proprio conto, di due differenti identità, nell’arco di una vita immaginata. Identità che non si manifestano tanto nell’abito, quanto nella parola poetica, come trasposte in un universo altro.
Spirito di indagine più realistico e drammatico si ritrova anche in Io che amo solo te, di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli. Gli autori non sono Pischellə, almeno non dal punto di vista strettamente anagrafico, eppure hanno impiegato una lente nell’approccio drammaturgico evidente nella scelta di Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi per i due ruoli principali, al debutto appena maggiorenni. La sperimentazione, qui, non è tanto nella parola, ma nel gesto umano e spirituale – simbolico, se vogliamo – che nasce proprio dalla giovinezza. Mescolando ricordo e affermazione di sé, seppur tardiva, si giunge ad una soluzione pacificatoria col passato e più positiva nel presente. Uno specchio di quanto avvenuto realmente negli ultimi quarant’anni in Italia.
Ulteriore passo in avanti nella sperimentazione. Più attuale, forse, nella commistione di generi e linguaggi, soprattutto nell’inclusione di vogueing, musica e corporeità all’interno dello spettacolo, è Elizabeth Una fiaba queer, di Leonardo Bianchi e Gian Maria Labanchi, andato in scena appena più di un mese fa al Teatro di Villa Lazzaroni. Performer che utilizzano corpo, voce e gesto per rappresentare la storia di Elisabetta/Orlando in una sorta di Ballroom. Non tanto il testo, si percepisce di più la contaminazione. Essa stessa diviene metafora visibile – e godibile – dello scandaglio dell’identità. Il tema si riallaccia alla letteratura – Virginia Wolf e Vita Sackville-West, sua amica e amante – ma l’ambientazione storica è messa in crisi.
Il trucco innaturale, lo spazio simbolico, il suono distorto, l’abito – fuori dal tempo – è oggetto di trasformazione scenica, recuperando quasi le indicazioni di Mieli. Quest’ultimo, in una mitica intervista di Antonio Attisani, insisteva sulla centralità della costruzione del costume scenico come elemento di costruzione – e decostruzione – identitaria attraverso un processo lento e consapevole. Mieli lo individuava nel “tempo dell’attore” in camerino, prima dello spettacolo. Oggi questo “tempo” è divenuto oggetto stesso di azione.
Altre occasioni per il futuro? L’Off Off Theatre, che ha predilezione per spettacoli lgbtqia+, offre la possibilità di un debutto alle compagnie under 30 nella prossima stagione (https://off-offtheatre.com/ribalta-giovani-bando-off-off-theatre/), il Teatro Quarticciolo si propone da sempre come terreno di incontro e di confronto per le innumerevoli sperimentazioni nazionali e internazionali che ospita – basti citare Peter Pan guarda sotto le gonne, scritto e diretto da Liv Ferracchiati o Anatomia di un fiore di Valeria Wandja e Yonas Aregay. E persino il Monk dedica una occasione di formazione che coniuga musica live, produzione, area tecnica e parità di genere (https://www.equaly.it/call-equaly-utility/).
La certezza è che ogni generazione di Pischellə riuscirà a spingere la sperimentazione scenica e i confini delle libertà individuali sempre più oltre.