Il sistema può essere cambiato anche da dentro, anche quando questo sistema si chiama Vaticano. Così almeno la pensano alcuni esponenti LGBTQI+ della Chiesa dichiarandosi, producendo documenti e cercando in tutti i modi di diradare quella coltre di oscurantismo clericale che per secoli ha nascosto e biasimato la loro vera natura.
È passato poco più di un anno dal lancio della campagna #OutInChurch – Per una Chiesa senza paura, con la quale 125 persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersex, queer, non binarie, impegnate a diverso titolo nelle 27 diocesi di Germania, hanno dichiarato il loro orientamento sessuale o identità di genere. Tra di esse non solo consacrate e consacrati, insegnanti, operatori e operatrici pastorali, che prestano servizio nella cura delle parrocchie, nell’amministrazione di enti ecclesiastici, negli ambiti della catechesi ma anche sacerdoti e seminaristi.
E sono soprattutto i sacerdoti e i seminaristi gli interessati principali, perché ci vuole coraggio, e non poco, nel venire allo scoperto e dichiararsi orgogliosamente gay all’interno di una Chiesa che non solo continua, di fatto, a considerare la stessa omosessualità un’«inclinazione oggettivamente disordinata» (1), ma sbarra l’accesso al seminario e la strada all’ordinazione a coloro che «presentano tendenze omosessuali profondamente radicate» (2).
Prima di approfondire il significato e gli effetti perniciosi di tali disposizioni, ritengo necessario lasciare la parola a due sacerdoti protagonisti della campagna #OutInChurch. Per don Burkhard Kose, presbitero della diocesi di Würzburg e co-promotore del progetto «Il coming out di massa è un simbolo di solidarietà con tutte le persone che hanno ancora paura. Con quest’azione vogliamo quasi dimostrare e dire a ognuna di loro: Non sei sola». All’epoca il reverendo era d’altra parte consapevole che il vescovo Franz Jung, pur sapendo da tempo della sua omosessualità, avrebbe potuto reagire a un tale coming out. «Potrebbe fare qualcosa contro di me – ebbe a dirmi all’epoca – Ma, in ogni caso, non ho paura».
Ancora più forte la testimonianza di don Frank Kribber, sacerdote della diocesi di Osnabrück, per il quale «Con il coming out di massa di 125 persone operanti nelle comunità ecclesiali e la grande risposta dei media i vescovi tedeschi non possono più ignorare la realtà dell’omosessualità nella Chiesa. È un problema nella Chiesa. Dietro a me e alle altre 124 persone ce ne sono molte di più, che non hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto. I vescovi devono svegliarsi una volta per tutte. Un tale coming out di massa dà inoltre sicurezza, sostegno e forza».
Per poi aggiungere: «Ho detto pubblicamente per la prima volta di essere gay in questi giorni. Che sono un prete gay. Non ho un partner e non ho una relazione. Il mio celibato, d’altra parte, è sempre valido. Ma l’essere ora trasparente sulla mia sessualità mi consente di guardarmi allo specchio, di essere onesto e sincero con me stesso. Non devo più nascondermi».
Sono soprattutto le ultime valutazioni di don Kribber a interessare, perché permettono di meglio focalizzare l’accennata questione dell’omosessualità degli aspiranti alla vita seminariale e dei candidati al sacerdozio. Si tratta di un tema in sé antico ma trattato da Oltretevere solo nell’ultimo ventennio con determinati pronunciamenti disciplinari. Non si va infatti al di là del 2005, quando Benedetto XVI approvò una specifica Istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica, i cui contenuti sarebbero poi stati ripresi ed esasperati nei toni dall’accennata Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, approvata l’8 dicembre 2016 da Papa Francesco. Si scorrano i precedenti documenti vaticani o conciliari. Si compulsino pure i classici manuali di teologia morale – soprattutto quelli di Alfonso de’ Liguori per oltre due secoli (a partire dal XIX secolo) punto canonico di riferimento per quella che Ratzinger amava chiamare ortoprassi –. Ma al riguardo non si troverà parola alcuna.
È pur vero che quello dell’orientamento sessuale è un dato, su cui psicologia e antropologia hanno fatto luce solo in un passato relativamente recente. Il che spiega l’unico concentrarsi di teologi e magistero, fin quasi ai nostri giorni, su quello che veniva, e da taluni ancora definito, “vizio nefando” o “innominabile”. Ma è pur vero che, posta una dettagliata classificazione delle varie inadempienze al sesto comandamento, secondo una scala di progressiva gravità (ma al di sotto della sodomia c’erano pur sempre la bestialità, la necrofilia e il coito coi demoni) a interessare con riferimento diretto i seminaristi e i sacerdoti era, stringi stringi, soltanto un aspetto: l’osservanza della castità e, ovviamente per gli ordinati, l’obbligo celibatario.
Il trasgredirlo con uomini poneva unicamente il problema morale della species peccati. Ma da un punto di vista sanzionatorio nessuna differenza con chi l’avesse fatto con donne.
Le prese di posizione da Ratzinger a Bergoglio in tema di formazione seminariale e omosessualità hanno dunque inaugurato una nuova stagione – in totale rottura col passato – che per i difensori di Oltretevere risponderebbero a un mutato clima.
Quello, cioè, affermatosi con il contemporaneo movimento di liberazione omosessuale, sprezzantemente indicato dalle citate Istruzione e Ratio fundamentalis con l’appellativo di «cosiddetta cultura gay» (3), ai cui sostenitori deve essere precluso l’accesso al seminario. Ma non solo.
Stesso trattamento non solo per chi pratica l’omosessualità (come, d’altra parte, l’eterosessualità: il che è pienamente comprensibile col vigente obbligo celibatario dei presbiteri) ma anche per chi presenta «tendenze omosessuali profondamente radicate». Affermazioni, quest’ultime, non solo ambigue (che cosa intendano Bergoglio e l’allora cardinale prefetto Beniamino Stella piacerebbe capirlo) ma pericolose in quanto sottendono una concezione patologizzante dell’omosessualità da cui, in molti casi, “si potrebbe guarire”. Non a caso le teorie riparative di Nicolosi e associazioni come Courage sono viste con benevolenza dal Vaticano.
In questo scenario non meravigliano, ad esempio, le dichiarazioni di Papa Francesco alla 71° Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (23 maggio 2018). Ma una cosa è riflettere sulle cause che portano seminaristi e sacerdoti a non vivere la castità, un’altra è problematicizzare il tutto sull’omosessualità.
Le parole bergogliane: «Se avete anche il minimo dubbio che siano omosessuali, è meglio non farli entrare» o, peggio ancora, «Abbiamo affrontato la pedofilia e presto dovremo confrontarci anche con quest’altro problema: l’omosessualità» suonano non solo offensive ma fortemente ipocrite.
E qui non c’è bisogno di scomodare Dante, Lutero o le carte d’archivio per provare, oggi come per il passato, il numero elevatissimo di seminaristi, preti e vescovi omosessuali. Chiunque potrebbe addurre qualche testimonianza in tal senso a partire da un diffuso costume clericale di parlare al femminile. Qui si tratta, soprattutto per Bergoglio – a meno che la sua non sia un’operazione di cerchiobottismo –, di conciliare affermazioni come quelle rivolte alla Cei e le altre, quasi in contemporanea, rivolte all’omosessuale cileno Juan Carlos Cruz: «Dio ti ha fatto in questo modo e ti ama in questo modo e a me non interessa. Il Papa ti ama come sei. Devi essere felice di chi tu sia» (ma se ne potrebbero citare altre, cui la stampa ha dato spesso, con acritico entusiasmo, risonanza).
E, intanto, a farne le spese sono seminaristi e sacerdoti, la cui omosessualità celata per paura dà spesso il là, quando sussurrata o semplicemente immaginata, a una vera e propria caccia alle streghe.
Ecco perché non meraviglia, stante anche le differenze d’approccio, che del recente documento italiano Con tutto il cuore, stilato da circa 50 sacerdoti diocesani e religiosi con orientamento omosessuale o bisessuale, non si conoscano, a differenza di quanto successo in Germania, i nominativi dei firmatari.
La strada da percorrere è ancora tanta ma i segnali sono, indubbiamente, sempre più positivi. D’altra parte, come già rilevato anni fa dal teologo Paolo Gamberini, «se l’astinenza dall’esercizio della sessualità è richiesta nei candidati al sacerdozio (omosessuali ed eterosessuali allo stesso modo), i formatori in seminario dovrebbero valutare in quelli tale capacità e non esaminare se sono omosessuali o eterosessuali».
Poi sarebbe da toccare la questione in sé di tale astinenza e della validità dell’obbligo celibatario.
Ma questa è tutta un’altra storia.
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[Le immagini sono tratte da “Color Against Concrete”, indagine fotografica di esplorazione sul territorio urbano che stravolge la visione quotidiana del paesaggio cittadino, trasformandolo in un viaggio onirico. Foto di Cristiana Bezerra – IG: @cristiana.bezerra]
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Note:
1. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2358. Cfr. anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Homosexualitatis problema (1 ottobre 1986), n. 3.
2. CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis (8 dicembre 2016), n. 1187.
3. CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Ratio fundamentalis cit.