In Lessico Famigliare, Natalia Ginzburg scrive, a proposito dei suoi cinque fratelli,
«abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase […] Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare […]».
A Scomodo non siamo fratelli, eppure questa citazione pare la più adatta a descrivere i legami che si sono andati costruendo tra di noi negli ultimi anni. È che basta entrare in Redazione per essere trascinati in un mondo diverso, del quale non sai niente e all’improvviso ti pare di capire tutto. C’è Fra, che sta a smanettare con il cellulare per controllare i post della pagina; ogni tanto c’è Leila che scodinzola e si accuccia accanto alla stufa. Mentre si lavora la voce squillante di Salva si perde nell’aria, assieme al suo marcato accento siciliano. Agnese ogni mattina entra allegra ed energica: ha sempre una parola gentile per tutti. In quel tutti ci sono le persone che rendono Scomodo reale e che lavorano al progetto – con età e provenienze diverse – ma anche chi si trova nella nostra casa di passaggio. Eppure, anche chi passa rapido e non si ferma per troppo tempo, sente qualcosa di diverso nell’aria, capta connessioni diverse, di chi sa di aver trovato un posto dove essere ascoltato, visto, percepito, accolto.
Il mese scorso abbiamo lanciato la nostra cinquantesima pubblicazione: un numero atipico, diverso dagli altri. È con il numero 50 che abbiamo deciso di celebrare il nostro percorso, facendo quello che ci ha sempre caratterizzato: parlare in gruppo. È una cosa che si fa in famiglia: ci si siede attorno a un tavolo e si parla. Noi lo facciamo dal 2016. L’assemblea è lo strumento che più di tutti abbiamo fatto proprio e che ci appartiene: non si decide qualcosa se prima non se ne parla; non si scrive qualcosa se prima non se ne discute. Così, con l’ultima pubblicazione, abbiamo parlato. Lo abbiamo fatto quasi ininterrottamente per circa una decina di giorni: una riunione al giorno per un totale di dieci riunioni a proposito di chi siamo stati, chi siamo e chi saremo, nel tempo. Come ha scritto Edoardo Bucci nell’editoriale di Scomodo 50,
«prima ancora di aver scritto una parola, di aver portato avanti una battaglia, di aver costruito uno spazio, abbiamo parlato in gruppo».
In fondo è proprio così che è nato Scomodo. Tantissimi liceali, qualche universitario e un’idea: finanziare un giornale indipendente facendo delle feste e fare feste occupando luoghi abbandonati, rendendoli almeno per una notte, un luogo di cultura e vita.
Le Notti Scomode sembrano una leggenda. È un nome che a dirlo, tra i ragazzi di Roma, evoca qualcosa di magico e segreto: eventi che sfumavano nel buio, dei quali si perdeva traccia e che restavano impressi solo nella memoria e negli scatti mossi di qualche iPhone.
Un giornale che nasceva da premesse del genere non poteva che approdare a via Carlo Emanuele, a Manzoni. È lì che Scomodo ha trovato una casa stabile, la Redazione. Più che un posto dove stare, è un posto dove essere. Appena si entra, superata la piccola edicola nella quale si trovano le pubblicazioni del giornale, spicca una parete particolare. A vederla da lontano sembra quasi un Mondrian: bianca, con piccoli riquadri gialli, rossi e blu che contengono i nomi di chi ha aiutato a rendere quello spazio vivibile. Poco più avanti, di fronte al bar, una colonna decorata con scritte: in questa si trovano post-it con suggerimenti, idee, pensieri. Al di là del tavolo da ping-pong, una porta protegge dalle risate esterne l’aula studio.
In Redazione si passa il tempo in ogni modo: tra tornei di scacchi e karaoke, talk e dj-set.
Le attività sono variegate proprio per cercare di dare a tutti qualcosa da fare: ogni nostro gesto è calibrato sulla comunità che abbiamo costruito e che si è andata costruendo nel corso del tempo. Sembra naturale, quindi, pensare che Scomodo abbia trovato casa all’interno di Spin Time Labs, un bene comune per la rigenerazione urbana animato da una moltitudine di associazioni che ogni giorno impiegano sforzi e risorse per cercare di dare una risposta alle mancanze in tema di diritto dell’abitare e per sopperire ai vuoti culturali e sociali della città di Roma. È per questo che a quel -2 di Spin Time Labs, c’è un ritrovo, una casa. Tommaso Salaroli la chiama l’isola che c’è. Un angolo dove rifugiarsi, allontanarsi dagli schiamazzi del mondo esterno. C’è chi arriva la mattina presto quando decide di fare sega a scuola. Magari alcuni si incontrano lì, poi ne discutono e cambiano idea, afferrano lo zaino e vanno via, entrano alla seconda ora.
Tutti noi quando attraversiamo quello spazio prendiamo parte a piccoli attimi di quotidianità in cui andiamo a stabilire delle connessioni con le persone che ci circondano, influenzando gli altri, dando il nostro contributo. Sembra complesso capire quale sia il proprio posto nel mondo, ma è lì che si impara che la risposta sta sempre nel tentativo di aiutarsi: è per questo che anche al di fuori di Spin Time è nata una rete, Polo Civico, che comprende tutte le associazioni del quartiere Esquilino. Sembra un’utopia, invece è solo il nuovo mondo già possibile e necessario al quale fa riferimento lo striscione all’entrata di Spin Time Labs. Basta varcare quella soglia per capire che è vero.
[Sara Paolella è la Responsabile Sezione Cultura di Scomodo, mensile indipendente d’attualità e cultura]